Portinari

"Lei è vescovo, prelato della Chiesa e decide sulla materia di sua competenza, ma in materia di pittura io sono il Papa"

Giuseppe Eugenio Luraghi

Candido Portinari: dai maggiori critici mondiali dichiarato alcuni decenni fa como il più grande pittore del Sudamerica, eppure così poco conosciuto in Italia, nacque il 29 dicembre 1903 nella fattoria di uma piantagione di caffè a Brodosqui, secondo di una famiglia di 12 figli, da Giovan Battista, originario di Chiampo (Vicenza), e Domenica Torquato, di Bassano. Questi contadini veneti raccontavano che le loro famiglie erano emigrate, quando essi erano ragazzi, senza sapere con esattezza dove sarebbero finite, come spesso allora accadeva: solo sull’affollato molo di Santos venne fatta la divisione dei gruppi per le varie destinazioni ed a loro toccò appunto Brodosqui, nello Stato di San Paolo, dove vennero trasferiti coi loro fagotti.
La vita nelle piantagioni, fra negri ex schiavi, allora era dura e trascorreva nella miseria e nelle più palesi ingiustizie: questi ricordi hanno inciso profondamente nell’animo sensibile, semplice, aperto di Candido, dai chiari occhi celesti e dalla salute incerta, nato pittore e scelto dalla sorte - come è successo di tanti veri artisti - per annunciare un nuovo messaggio col suo pennello ispirato e fecondo. Scelto dalla sorte, che coi geni è sempre felice, perché quando egli aveva nove anni, alcuni artigiani italiani che avevano avuto l’incarico di decorare le pareti della chiesa del villaggio, assunsero il ragazzo come garzone e vista la sua buona volontà si fecero aiutare da lui a dipingere in scomoda posizione le stelle d’oro sul soffitto azzurro della cappella. Dunque furono proprio le stelle, come avvenne per le pecore di Giotto (ogni destino straordinario ha le sue leggende) ad aprire ed illuminare la via a Candido, il quale, preso dalla nuova passione, si era dato a disegnare per suo conto e dopo pochi anni - era tredicenne - se ne andò a Rio de Janeiro per vedere il mondo e per studiare. Facendo piccoli servizi si procurò la possibilità di seguire dapprima corsi di disegno e poi di pittura presso la scuola di belle arti. Ebbe così le prime basi tecniche necessarie da buoni maestri, ma in realtà Portinari fu sostanzialmente un autodidatta: per una personalità eccezionale come la sua non poteva essere diversamente.
A parte studi e disegni, la sua prima vera composizione, dipinta quando non era ancora ventenne, rappresentava un ballo popolare tipico delle sue terre: il quadro usciva totalmente dagli schemi accademici, anticipando una originalità rivoluzionaria - che in seguito doveva distinguere tutte le sue opere - tanto da enire rifiutato dalla giuria di una delle ricorrenti mostre del Salone di Rio. Seguì un periodo di dura povertà, durante il quale il pittore eseguì molti ritratti per campare (in seguito mi disse che lui ritratti, per l’avvenire. non voleva più farne), ma si trattava di opere che entravano pienamente nel gusto accademico dei maestri, i quali gli aggiudicarono una borsa di studio per l’Europa.
Naturalmente il temperamento riprese presto il sopravvento e Candido si diede a dipingere scene ispirate alla vita dei contadini, nei lavori delle piantagioni, donne e bambini con gli stracci delle “favelas”: maturando rapidamente la tecnica le sue composizioni sono poi andate facendosi sempre più accusatricì delle fatiche, dello sfruttamento, della miseria alla quale erano soggetti soprattutto negri e meticci dalle mani possenti, e dai piedi ben piantati nella terra rossa ed insidiosa di una natura violenta ed esigente. Sono torsi possenti, costruiti nella fatica, occhi dilatati di poveri giganti pazienti e rassegnati ad un destino senza scampo; sono bambini vestiti di stracci, rachitici con le pance gonfie e l’aria spaurita o instupidita. Anche i suonatori e le feste dipinte sono povere, prive di allegria (molto diverse dai pazzi, chiassosi, folcIoristici carnevali di Rio), come vecchie ripetute usanze contadinesche, compiute quasi come un lavoro.
Il realismo di figure monumentali si trasformava nella elaborata visione dell’artista, come avveniva nelle figure dei nostri grandi pittori del Rinascimento.
Nel 1938 si verificò ancora un fatto eccezionale che aprì a Portinari la fama internazionale. Qualche anno prima, come ho già accennato, usufruendo di una borsa egli aveva fatto un viaggio di studio in Italia, Spagna. Inghilterra, Francia (dove aveva sposato Maria Martinelli, una uruguaiana pure di origine italiana, che con la sua intelligente assistenza gli è stata di grande aiuto in tutte le difficoltà della vita), durante il quale viaggio si era limitato ad osservare. Rientrato in patria era riesploso in una attività frenetica, ma le sue opere rimanevano solo brasiliane. Visitando Rio, René Huyghe, direttore del museo del Louvre, capitò nella povera casa di Portinarì, il quale a corto di tele (a volte usava pezzi di lenzuola) stava dipingendo sul retro di un quadro già terminato. Si trattava di quello che divenne il famoso “O morro”: Huyghe bloccò la distruzione che si stava compiendo e fece inviare l’opera ad una esposizione aperta negli Stati Uniti, dove in seguito venne acquistata dal Museo di arte moderna di New York. Il successo fu tale che fruttò il grande affresco affidatogli per l’esposizione mondiale tenutasi in quella città, oltre a due mostre personali organizzate dai musei della stessa New York e di Detroit.
Eppure Portinari non ha mai concesso nulla alla tradizione, all’opportunismo, al gusto della moda, continuando implacabilmente con la sua opera di denuncia.
Ottenuto l’incarico di realizzare quattro grandi tempere per la biblioteca del Congresso di Washington, egli sviluppò temi relativi alla scoperta dell’America, mettendo ogni giorno sotto gli occhi dei parlamentari degli Stati Uniti, in un periodo in cui in alcune regioni del Sud la gente di colore subiva ancora umilianti discriminazioni, gruppi di vigorosi negri urlanti.
Pare che in questa occasione, non molto candidamente, Candido non rispettasse i bozzetti approvati in precedenza, ma la bellezza delle opere, esaltate da tutta la critica, salvò il pittore da possibili guai ed anzi l’episodio accrebbe la sua fama.
Portinari diceva che quanto più calmo era il suo animo, tanto più gli si componevano nella fantasia scene di negri innocenti e rassegnati; ma in realtà si trattava di una calma soltanto apparente. La guerra civile spagnola e poi il grande assurdo conflitto mondiale aggiunsero nuovi motivi alla sua polemica ed esasperarono il suo animo: la sua arte esplose nuovamente in una violenta ribellione. Le sue composizioni si fecero sempre più strazianti: le ossa ed i nervi dei suoi martiri e dei suoi santi affioravano, dalle loro pupille sgorgavano grappoli di lagrime di sasso; i bambini erano più che mai sbigottiti.
Riaffiorarono i ricordi dei suoi anni dell’infanzia, quando a Brodosqui arrivavano gruppi di contadini affamati, ischeletriti, coperti di stracci, fuggiti con qualche fagotto dalle terre colpite dalla siccità, mentre nell’amplissimo cielo infuocato giravano gli urubù alla ricerca delle carogne disperse e gli spaventapasseri si ergevano come grotteschi crocifissi. I profeti, i santi dei suoi dipinti parlano di cattive erbe da strappare, del fuoco della Geènna e minacciano pianti e stridore di denti. Il Cristo è un figlio straziato, non venuto a mettere pace in terra, ma spada e ad annunciare che “chi non prende la sua croce e non segue me, non è degno di me”. Candido mi diceva che le sue migliori “pietà” erano quelle che rappresentavano bambini morti di stenti fra le braccia di madri disperate. Esiste un suo San Pietro esasperato che tira il collo al famoso gallo che ha cantato preannunciando il fallo.
In queste opere si possono scorgere i pericoli di certi eccessi; si può non ammettere che la ribellione debba esprimersi anche sconvolgendo ogni canone e misura, ma non si può non rimanere colpiti per tutta la vita da queste angosciose accuse, sofferte e comunicate da un animo sinceramente straziato. Si giunse al punto che un vescovo rifiutò di consacrare una nuova chiesa a Pampullia progettata dal famoso architetto Niemayer, dove Portinari, oltre ad una Via Crucis, aveva collocato una grande composizione con un ischeletrito San Francesco, con un cane ai piedi, nell’atteggiamento accusatore del Cristo di Michelangelo in Vaticano. Passò qualche anno ed infine anche le autorità ecclesiastiche si aggiornarono e la chiesa venne solennemente consacrata ed ammirata. A proposito di pitture sacre credo interessante ricordare che in seguito ad una osservazione azzardata di un vescovo circa i colori di un dipinto, mettendo da parte la sua abituale modestia, Candido apostrofò il prelato dicendogli: “Lei è vescovo, prelato della Chiesa e decide sulla materia di sua competenza, ma in materia di pittura io sono il Papa”.
In occasione di una esposizione ordinata alla Galleria Charpentier di Parigi, René Huyghe scrisse: “La mattina in cui vidi l’insieme delle sue tele provai una tale emozione che uscii dalla Galleria preso da una vera eccitazione nervosa. Quel pomeriggio non mi fu possibile di lavorare”. Della stessa esposizione Germain Bazin, conservatore del Louvre, scrisse: “Salutiamo il Portinari, questo Michelangelo brasiliano, una delle forze creatrici delle nuove generazioni”, e Jean Cassou, direttore del Museo d’arte moderna di Francia aggiunse: “Portinari è indubbiamente il più grande pittore dell’America Latina ed uno dei maggiori contemporanei”.
Portinari lavorava con un impressionante impegno dall’alba al tramonto, nella frenesia di dover dire tutto quello che dentro gli urgeva, come se presagisse la sua fine immatura: affreschi e tempere per murali di grandi dimensioni in Brasile, Argentina, Uruguay, Stati Uniti, quadri di cavalletto, disegni, punte secche, con una fantasia inesauribile, con soggetti e composizioni sempre originali, raramente ripresi, dettati da una reale emozione che quasi lo ossessionava. Passata la guerra, nelle sue opere le lagrime sgorgano sempre amare, ma il dolore vince l’eccitazione.
E l’Italia? Nella primavera dei 1950, durante un nuovo viaggio fra noi, lo accompagnai per la prima volta a vedere Chiampo, dove era nato suo padre. Le placide, verdissime colline dei vicentino, le belle acque chiare (allora!), il buon vino ed il pane casereccio delle osterie di paese, il parlare cantilenato e la gentilezza naturale della gente, colpirono profondamente l’animo sensibile dell’artista e gli rivelarono un altro mondo. Io lo accompagnai anche in altri viaggi a Venezia. a Roma, a Milano ed ebbi la chiara sensazione che il nuovo stato d’animo avrebbe influito sull’opera futura dei pittore: mi azzardai ad annunciarlo nel mio primo libro “Portinari” edito dalla Meridiana, suscitando qualche curioso commento da parte di critici brasiliani, ma credo proprio che la previsione si sia avverata.
Mi fa piacere ricordare qui come conobbi Candido Portinari, perché ciò mi dà anche il modo di dire qualche cosa dell’uomo, sorprendente come l’artista.
rent’anni fa, durante un viaggio in Argentina, Rafael Alberti esule dalla Spagna di Franco, poeta del quale avevo pubblicato in Italia il primo libro di liriche scelte e tradotte nella nostra lingua (anche questo grande artista di origine italiana era allora sconosciuto da noi quanto ora è diventato celebre) mi parlò calorosamente dei suo amico pittore che risiedeva a Rio de Janeiro e mi diede una lettera di presentazione. Durante il viaggio di ritorno mi recai a cercare Portinari, che viveva in una casa isolata alla periferia alta della città ai bordi della straripante foresta brasiliana. La moglie mi condusse in un grande capannone (che seppi poi progettato da Niemayer), dove Candido stava dando gli ultimi tocchi ad una composizione a tempera di grandissime dimensioni, rappresentante il sacrificio dell’eroe brasiliano conosciuto col nome di “Tiradentes”. Io conoscevo i grandi affreschi dei messicani: Diego Rivera, Orozco, Siqueiros, composizioni monumentali delle quali noi in Italia abbiamo perso l’abitudine, tanto che per i confronti dobbiamo rifarci ai tempi antichi, ma allora mi colpirono profondamente non solo la violenta tragedia del soggetto e le dimensioni, ma anche la speciale tecnica che non conoscevo e che Portinari aveva usato nell’opera, suddividendo la composizione in tagli geometrici, di colori diversi intersecantisi e sovrapponentisi in modo da favorire, con contrasti di forme, luci ed ombre, la drammaticità della composizione e conferendo un efficace movimento ai personaggi anche laddove essi sono rappresentati fermi. Credo che questa tecnica rappresenti una sua invenzione, che gli ha permesso di coprire enormi pareti con composizioni di sorprendente vivacità. E il piccolo Candido, coi pennelli in mano ai piedi del dipinto, sembrava un bambino, innocente, ma lui stesso meravigliato del cataclisma che aveva creato.
Forse il più efficace e sorprendente risultato di questa sua multicolore geometria (che sembra costituire un sottofondo astratto alle composizioni, sul quale vengono inserite le figure) si possono apprezzare nelle due grandi tempere per il palazzo del’ONU a New York, aventi per soggetto “la Guerra” e “la Pace”. Tali opere furono affidate a Portinari da una commissione internazionale: dopo molti studi e dopo aver superato molte peripezie furono terminate nel 1955; esse misurano 14 metri per 10. Apocalittica la “Guerra” affollata di figure terribili e disperate, distesa – lapace - in festosi canti di fanciulli. Non sono le ultime opere di Portinari, ma credo che rappresentino il frutto più maturo della sua arte.
Il rapido nascere ed il continuo rafforzarsi della mia amicizia con quest’uomo straordinario, rappresentarono per me un periodo felice della mia vita. Candido era veramente un fanatico della sua arte, ma nella vita normale era proprio come un bambino coi suoi occhi celesti che a volte ammiccavano furbescamente, ma in caso di irritazione improvvisa si accendevano. Gli piaceva parlare in tono semplice e dimesso soprattutto con la gente della campagna, a Brodosqui i contadini ritenevano che un uomo famoso come lui dovesse saper fare qualunque cosa, sicché gli portavano orologi da aggiustare, macchine da far funzionare, lettere da scrivere e lui, per non deluderli, faceva di tutto per soddisfarli. Non conosceva assolutamente il valore del denaro, nulla sapeva di contratti, di diritti, di prezzi, sicché fortunatamente aveva una moglie che sapeva aiutarlo in tutto, quasi conducendolo per mano nei suoi frequenti viaggi all’estero, a volte complicati da faccende burocratiche. Quando si girava con lui per Milano, bisognava pazientemente aspettare che entrasse in tutti i negozi di ferramenta dove comprava una quantità di cose inutili che lo affascinavano. Lo stesso succedeva per negozi di confezioni, dove comperava calzoni di velluto di colori impossibili, che poi non portava mai. Ogni manufatto lo meravigliava e la tecnologia lo esaltava perché gli apriva un campo sconosciuto. Quando suo figlio João andò a Parigi per compiere studi scientifici, Cândido entrò nel regno dei cieli e mi dichiarò che ormai la nuova arte era quella: le scienze, non più l’arte figurativa della quale egli aveva percorso tutte le strade.
Qualche anno dopo i suoi viaggi in Italia dei quali ho detto, rividi il pittore a Rio, convalescente di un grave avvelenamento da colori. I medici gli avevano severamente proibito di dipingere ed egli passava malinconicamente molte ore in una poltrona nella sua casa di Copacabana, assistendo all’alterno accavallarsi delle onde sulla magnifica conca; ma componeva nella mente nuove opere e ne parlava speranzoso. Fu in quell’occasione che, disseminate un pò dovunque, scoprii cartelle di disegni ai quali egli non dava alcuna importanza, accumulati in anni di ricerche e di tormentato lavoro. Ottenni l’autorizzazione a pubblicare una piccola scelta nel libro - Disegni di Portinari - edito nel 1953 dalla ILTE di Torino. Per attenermi sempre ai miei rapporti con Portinari, ricorderò che nel 1959, sempre con la ILTE, pubblicai una scelta di disegni che il pittore aveva riportato da un suo viaggio in Israele. Nel 1960, col titolo “Brazil”, pubblicai l’ultimo libro da me dedicato alla pittura dell’amico.
Mentre stavo organizzando - coi comune di Milano - la prima grande mostra nell’ex Palazzo Reale con dipinti, disegni, fotografie di opere racimolati in tutte le parti dei mondo, improvvisamente il 6 febbraio 1962 Candido Portinari morì a Rio, sempre in conseguenza dell’avvelenamento da colori di cui aveva sofferto in precedenza, proprio il male degli antichi pittori. L’esposizione ebbe il successo che meritava e gli italiani infine tributarono il giusto riconoscimento di ammirazione a questo genio prima completamente trascurato: Michelangelo brasiliano, ma Michelangelo.
Nel 1964 l’ONU organizzò una esposizione nel palazzo di Ginevra in onore dei pittore, per la quale anch’io feci del mio meglio perché riuscisse nel migliore dei modi: così anche in quell’occasione non mancò il ricordo dell’Italia. Nell’occasione l’ONU fece una edizione di francobolli postali con l’effige di Portinari, ora rari. Ed il governo brasiliano sta ora sovvenzionando una iniziativa denominata “Progetto Portinari” presieduta dal figlio João, che ha il compito di raccogliere in tutto il mondo il materiale necessario per compilare un catalogo completo delle opere del pittore che risultano circa 4.000. L’opera richiederà una decina di volumi, il primo dei quali dovrebbe uscire prima della fine dell’anno. In Italia pochissime sono le opere che esistono nei musei di arte moderna perché siamo più propensi a comprare giocatori di pallone brasiliani che opere d’arte: speriamo che la divulgazione dei cataloghi permetta anche a noi di collocare degnamente al suo giusto posto nella storia della pittura, anche da parte della nostra critica, questo maestro che con la sua arte eccezionale ha contribuito a tener alto il nome dei nostro poco riconoscente Paese.

 


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