CINEMA ITALIANO

Il Valore dell'umorismo

Sergio Micheli

Da qualche anno il cinema italiano dimostra di avere preso una strada, principale, ben precisa.

E’ finito il ricco filone del film d’autore (che ebbe il massimo indice di sviluppo negli anni ’60: quello di Pasolini, di Visconti, di Fellini, di Antonioni ecc.) per cedere il passo ad un genere, prevalente, di film improntati all’umorismo.

Oggi chi volesse andare al cinema solo per farsi due risate si troverebbe, come si trova, davanti ad una ricchissima scelta.

Proliferano infatti, senza sosta, esempi di produzioni sul genere comico ad opera di una serie abbondante di specialisti. I quali aumentano sempre di numero man mano che i mass media (la TV in particolare) li rendono famosi e ben accetti al pubblico.

Carlo Verdone, Leonardo Pieraccioni, Aldo-Giovanni e Giacomo, Ceccherini, Panariello e, recentemente, anche Chiambretti ecc. ecc. (oltre a Roberto Benigni), sono le inossidabili star del momento.

C’è da domandarsi quale sia la ragione di questa svolta del cinema italiano rispetto alla linea di prima.

Molto probabilmente alla base di questo fenomeno c’è una ragione di carattere commerciale.

Il cinema, come è noto, non è solo un settore di lavoro attraverso il quale è possibile operare nel campo della produzione culturale e artistica. Il cinema è, oggi, soprattutto industria. Per cui non è concepibile che si investano milioni di Euro in questo àmbito senza la sicurezza di un rientro sicuro dei capitali impiegati con il dovuto profitto.

E probabilmente il genere comico è quello che, in questo momento, offre più garanzie d’investimento. Del resto i risultati al botteghino parlano chiaro. Anche il recente film di Pieraccioni, uscito proprio durante le feste di Natale, Il principe e il pirata, ha già superato abbondantemente il limite che consente la copertura dei costi di produzione.

C’è da dire, semmai, che, su questa linea, il cinema italiano tende inesorabilmente a scadere dal punto di vista della qualità perciò sul piano dei valori estetici ed artistici.

Come è noto se questi popolari comici si presentano dotati di qualità specifiche, se, insomma, riescono a fare spettacolo (molti di loro provengono dall’esperienza di cabarettisti e di intrattenitori) e a divertire, ciò non vuol dire avere le capacità per mettersi anche dietro la macchina da presa e per svolgere con disinvoltura la professione di registi: che è tutt’altra cosa e un altro mestiere.

La colpa è di Charlie Chaplin, di Buster Keaton, di Jacques Tati e, alla fine, di Vittorio De Sica: è di questi geniali quanto rari cineasti a tutto tondo i quali sono riusciti a creare, nel loro doppio ruolo di attori-registi, grandi capolavori.

Peccato, perché alcuni film dei nostri baldanzosi comici se affidati ad esperti e collaudati registi, sarebbero potuti sortire in vere grandi opere per lo schermo. E’ sull’esempio dei sopracitati cineasti che, ingenuamente, si pensa e si crede di ottenere imperituro successo stando davanti e dietro la macchina da presa. I nostri comici hanno le carte in regola ma in quanto attori e per le qualità d’intreccio e narrative dei loro originali soggetti.

Tuttavia il cinema attuale italiano non percorre solo questa strada anche se, come si è premesso, essa si connota oggi genericamente con il genere comico.

Non si sa come (poiché reperire capitali per un film diventa una difficilissima e faticosissima impresa) molti giovani, nel loro ruolo di registi debuttanti riescono a superare una serie infinita di enormi ostacoli e a firmare film (ovviamente a basso costo) quindi ad uscire allo scoperto, fra l’altro con buoni risultati.

Sono, con molta probabilità, i caratteri di semplicità, di naturalezza e d’ingenuità delle storie che si raccontano in questi film ad attirare il pubblico che, ormai, si compone per la maggior parte di giovani curiosi e appassionati. Sono loro, infatti, ad identificarsi (poiché il cinema ha questa forza) nei protagonisti di tali vicende poiché il mondo che appare sullo schermo è proprio il loro.

Purtroppo non tutti i film che si fanno per la regia di esordienti (così come per altri), riescono a trovare una distribuzione adeguata: sebbene quelli che imboccano la strada giusta siano capaci di suscitare interesse perciò di incassare, a volte inaspettatamente, cifre cospicue.
Film come La lingua del Santo di Carlo Mazzacurati, Non mi basta mai di Guido Chiesa e Daniele Vicari, Estate romana di Matteo Garrone, La vita altrui di Michele Sordillo, Sud Sire Story di Roberta Torre, L’ultimo bacio di Gabriele Muccino, Almost blue di Alex Infascelli e così tanti altri, stanno a dimostrare che qualche nuovo talento può emergere: sia esso regista, sia sceneggiatore, sia attore.

La rivelazione dei giovani dotati di particolare qualità interpretative come Stefano Accorsi e Giovanna Mezzogiorno si deve proprio a questa ondata di film realizzati da questi giovani registi.

Tuttavia le qualità più rilevanti del cinema italiano di questi ultimi anni sono da ricercare in altri ragguardevoli esempi, anche questi onorati da un pubblico sempre numeroso e affezionato, comunque più vario. Intendiamo riferirci a film come I cento passi di Marco Tullio Giordana e Placido Rizzotto di Pasquale Scimeca: due campioni che fanno onore al cinema italiano per l’apprezzabile impegno e per la funzione culturale che esercitano sulla scia dei migliori film di denuncia sociale.

Non sta certamente nell’affermazione, anche internazionale, di film come La stanza del figlio di Nanni Moretti, un bluff intimista di scarso valore specificamente cinematografico, la ripresa del nostro cinema.

Ma se si volesse ricercare, nell’insieme della produzione made in Italy, un atteggiamento ricorrente dal punto di vista dei contenuti, resta abbastanza facile accorgersi come queste storie narrate per lo schermo rivelino uno stato d’animo e una condizione improntate al pessimismo, rivelatrici perciò di una concezione che non lascia troppe speranze per i tempi a venire.

Sergio Micheli è docente di Storia del Cinema presso l‘Università per Stranieri di Siena
e critico cinematografico.

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