Carnevale ogni scherzo vale

Umberto Eco

Due settimane fa circa Mario Pirani aveva rilanciato su “Repubblica” un tema che non cessa di suscitare perplesse discussioni. Se un uomo politico (o chiunque altro) ritiene (o vuole fare credere) di essere ingiustamente accusato di qualcosa dall’articolo di un giornale, dà causa per calunnia, ed è nel suo diritto. Perché ci pare scorretto o irritante che lo stesso personaggio ricorra a vie legali, quando si sente accusato da una vignetta di satira politica?
La satira politica è una cosa seria, sui giornali di tutto il mondo democratico appaiono (e non solo da oggi) vignette quotidiane che talora (come accade per molti giornali anglosassoni) non fanno neppure tanto ridere, ma certamente contengono un messaggio politico, di cui l’autore si assume la paternità. Si badi che non stiamo parlando di vignette che giocano sui difetti fisici di qualcuno, e ne fanno la caricatura, sia pure impietosa, ma di vignette che inviano un messaggio e dicono (sorri-dendo) “tu hai fatto questo o quest’altro”.
Il problema, ed è storia vecchia come il mondo, sta nel sorriso. Talora si dicono cose sorridendo con la precisa intenzione di far capire che non si dice sul serio, e che si vuole solo scherzare. Se saluto un amico dicendogli (sorri-dendo) «come stai vecchio mascalzone!» è chiaro che non sto dandogli davvero del mascalzone - e sarei al massimo impertinente se salutassi così il presidente della Repubblica o il papa (ma tutti avevano capito, meno gli sciocchi, che il “Voitilaccio” di Benigni era appunto detto con intenzioni irrispetto-samente affettuose). Però se io mi rivolgo in pubblico a una persona e (sia pure con un sorriso da gatto del Cheshire) gli dico «la corruzione, come Lei sa per esperienza personale, è arte difficile», è inutile poi dire che stavo scherzando: di fatto ho insinuato, e tra l’insinua-zione e la calunnia la differenza è così imperce-ttibile da costituire appunto materia di dibattito giu-diziario.
È vero che, come volevano gli antichi, si castigano i costumi ridendo, ma è altrettanto vero che, sia pure ridendo, si castigano. Pertanto inutile dire che i nostri più noti satirici, da Forattini a Giannelli, da Staino a Maramotti, da Vauro a Elle Kappa, sono dei buontemponi irresponsabili. Sono a pieno diritto opinionisti e la loro opinione può valere più di un articolo di fondo. Dunque, qualsiasi cosa dicano ridendo, va presa sul serio. E dunque è nel suo buon diritto chi vorrebbe querelarli? Dovremmo dire di sì, eppure abbiamo, tutti, una certa resistenza ad ammetterlo, come se citare in tribunale chi ci dà del ladro in un articolo di fondo non sia censura, ma citare chi ci dice la stessa cosa con un efficace disegno sia invece un attentato alla libertà di stampa (e di satira).
Sotto l’idea della libertà di satira stanno due venerabili istituzioni, il buffone di corte e il carnevale. Il buffone di corte aveva il diritto di dire al re le cose più atroci, e poteva assumere la funzione provvidenziale di un grillo parlante, ma un grillo parlante intoccabile. E durante il carnevale tutto era lecito, così come in quelle manifestazioni carnascialesche che erano i trionfi, i legionari romani potevano chiamare “regina” Giulio Cesare, alludendo in modo assai trasparente ad alcune sue vere o presunte scappatelle omosessuali. La differenza è tuttavia che il buffone era ammesso a dire tutto quello che voleva solo a corte, ma se fosse andato a ripeterlo sulle piazze sarebbe stato impiccato, e le licenze carnascialesche duravano pochi giorni - e per il resto dell’anno certe cose non si potevano fare.
Ci accorgiamo dunque che il dilagare della satira politica (e anche non politica) fa parte di un fenomeno tipico del nostro tempo, che è la carneva-lizzazione costante della vita. È carnevalizzazione della vita poter avere film o spettacolo comico alla tv tutti i giorni e più volte al giorno, è carnevalizzazione della vita una Convention americana dove i partecipanti, compreso il candidato, si vestono e si comportano come fossero su un palcoscenico di Broadway, è carneva-lizzazione il dibattito televisivo in cui il politico dice cose presumibilmente serie accanto a una soubrette scollatissima che parla dei suoi calendari, è carneva-lizzazione il fatto che Benigni possa prendere in braccio Berlinguer, Berlusconi fare le corna, D’Alema parlare della sua barca o delle sue scarpe, il sindaco esibirsi in mutande, ed è carneva-lizzazione il fatto che quel venerabile e virtuoso vegliardo che è Giovanni Paolo II assista a uno spettacolo per giovani entusiasti davanti a una cantante rock che mostra l’ombelico, cosa che non le sarebbe concessa in una udienza in Vaticano. È insomma carnevalizzazione della vita la perdita del confine tra ciò che è “serio” e ciò che è spettacolo.
Non c’è da moralizzare: tale è la condizione di una società massmediatica, e bisogna saper convivere con il fenomeno. Ma ecco che quando ci troviamo sul limite esilissimo tra discorso serio e gioco, qual è appunto la vignetta di satira politica, non riusciamo più a decidere da che parte stiamo e il problema ci pare, giusta-mente, irresolubile.

 


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