Luigi Pirandello

N. a Girgentil il 28 giugno 1867, m. a Roma il 10 dicembre 1936. Un titolo che lo consegni al catalogo dei generi literari, quello di drammaturgo, vale piuttosto come termine di convergenza che come indicazione esclusiva: lirica, narrativa, saggistica, drammatica, sono per lui forma di assidua scrittura, e in vario metro si presentano contemporaneamente lungo tutta la sua opera, che appunto è fatta di improvvise effusioni canore nella vigile riflessione alacre e svagata, impietosa e sofferta, e di un abbandonarsi instancabile in una sfera di fantasia che colma l’universo umano e ne trabocca, frenata poi da una disciplina compositiva e teatricache costringe le sue creature entro la cerchia rigorosamente delimetata di uno spazio dove chi taceva nel segreto delle case e delle coscienze si butta alla pubblica confessione, e tutti accorrono a far giustizia sommaria degli altri e di se medesimi.

Il poeta lirico trova un limite nella consuetudine gnomica: una scorata atavica sapienza, frutto del costume, prima che prova d’ingegno arguto e scaltro; e il narratore di vena inesauribile riduce a forme sommarie, burattinesche e scattanti, i personaggi che sull’onda dell’invenzione epica andavano ciecamente , ma fiduciosamente, incontro agli innumerevoli casi della vita. Questi quattro aspetti o momenti della sua attenzione, a due a due constraddicentisi, se aiuntano la schedatura della sua opera e offrono una traccia della storia della sua poetica, ripullulano di fatto in ogni composizione più valida, istantaneamente e contemporaneamente: così che, tralasciando le sue raccolte di liriche e le sue raccolte di saggi, che a paragone dell’immensa opera narrativa e drammatica sembrano cose minori, chi volle decidere se P. novelliere valga più o meno di P. commediografo non s’accorse che si tratta di due momenti necessari non solo di una evoluzione poetica unitaria, ma del ritmo interno della sua scrittura. Per contro, sembrano rinunciare a ogni coerenza, che non sai quella della disciplina formale e del suo dovere di lavoratore strenuo, le cronache della sua vita.
Studiò nelle Università di Palermo, di Roma e di Bonn, dove si laureò nel 1891 e fu lettore d’italiano l’anno seguente. Stabilitosi a Roma, partecipò alla vita giornalistica e letteraria e a quella accademica, supplente alla cattedra di lingua e letteratura italiana nell’Istituto Superiore di Magistero (1897) di cui divenne titolare nel 1908, tenendola fino al 1922. Una crisi economica travolse il patrimonio familiare, investito nel commercio dello zolfo, una crisi di demenza sommerse la sua vita coniugale. Quando la gloria lo sottrase alle angustie eroiche di una vita così severamente accettata, autore di fama mondiale, accademico d’Italia, premio nobel, portò nella vita vagabonda di teatrante e di regista lo stesso impegno di laboriosità strenua. Oppose questo suo costume severo agli anni della facile “vita come letteratura”.
Se volgliamo ulteriormente e con più precisione indicare il rapporto tra biografia e poesia, dobbiamo osservare che le occasioni che il suo vivere gli presenta non diventano mai, in lui, né fatti determinanti né tappe della sua evoluzione di artista: a meno di ingrandirne ad arbitrio la misura: come lui stesso accennò, talvolta: per esempio quando, lievemente deformando un toponimo dialettale, chiamò “il Caos” la villetta dei dintorni agrigentini dove soggiornava fanciullo; o come spesso fecero i critici, per esempio quando vollero a ogni costo vedere nell’episodio del suo studentato e del suo lettorato in Germania, una indicazione precisa per le origine del suo frequente filosofare. Ma proprio lui à insegnato a tutti a scorgere le tragedie nascote sotto le più trite apparenze, finché un caso qualunque o un’occasione aprono le cateratte alle fiumane delle confessioni spasmodiche. E che la sua filosofia, come à osservato il Croce, che tuttavia non seppe o non volle approfondire criticamente il significato della sua narrativa e della sua drammatica, sia manchevole di rigore sistematico e di vigore logico, non c’è dubbio: altra cosa è il dialogo del dramaturgo altra la dialettica del filosofo. E che sia amplificazione troppo vaga, per spiegare il motivo della tensione discorsiva che a tratti invade la sua scrittura, l’abito siciliano dell’instnacabile raziocinare, anche questo è evidente.
Ma la sua vita umbratile e poetante, nascosta per tanti anni dietro lo schermo della professione scolastica e letteraria, intenta a difendere e a celare il segreto della sventura, ci aiuta a scrutar più nell’intimo il segreto della poesia. Da quell’ombra egli esce verso lo spettacolo assolato e variopinto di un immenso paesaggio umano, e dal mondo si ritrae, fantasticando nell’ombra delle sue ore nascoste. Una terza fase della sua vita, dopo il noviziato universitario e dopo gli umbratili anni romani, lo propone perpetuamente alla ribalta della fama; ma egli non si lasciò, come disse nella commedia Quando si è qualcuno (v.), chiudere nel suo stesso monumento: e volle essere, come poeta creatore, perpetuamente vivo e diverso. “Uomo segreto” fu detto da un suo biografo, il Nardelli. E un lirico interprete della sua vita e della sua opera, ilo Bontempelli, lo rievocò nella porvetà assoluta del suo accompagno, della sua sepoltura, e palesò la grande rinunzia a tante troppo facile cose richieste dalla sua poesia.
Ma la critica, intesa come biografia assoluta e storia della poetica, lo accompagna lungo la via della vita; e valga per tutti il Di Pietro, che per primo ne tracciò le linee essenziali. L’eccellenza dove ogni cuore d’artista intende, come Dante poneva sulla bocca di Oderisi, fuor della ciarla polemica intorno alle arti, non è per lui perfezione di una forma irreprensibile, ma perpetua ansia di conoscenza, inestinguibile pietà umana: Pena di vivere così, come disse in una celebre novella; e riscatto. La menzione delle prime raccolte di versi, Mal giocondo (1889), Pasqua di Gea (1890), Elegie renane (1895), non si fa soltando per debito di primato cronologico: parvero poco cosa, a paragone della straordinaria fioritura lirica nella letteratura italiana di quegli anni; ma anche a prescindere da quella “costante” lirica che indicavamo più sopra, vi sono, lá dentro, modi che ritornano dopo sì lungo viaggio nelle opere del P. ultimo. E citeremo, dei saggi, soltando quelli di Arte e scienza e de L’Umorismo (1908, v. Saggi), indicativi fin dal titolo. Suo primo romanzo è L’esclusa (1901, v.); altri romanzi Il fi Mattia Pascal (1904, v.), I vecchi e i giovani (1913, v.), Si gira (1915: ripubblicato nel 1925 col titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore, v.), Uno, nessuno e centomila (1926, v.).
Per una rapida inquadratura di queste opere, i saggi sono una riflessione apologetica della sua propria attività letteraria, le liriche, al di là degli incontri col prevalente dannunzianesimo, annotano circostanze autobiogra-fiche o epigrammatiche; e nemmeno nutri quella fiducia profonda nell’avventura della fantasia ilimite, che tocca al romanziere: i suoi romanzi sono novelle distese, mediate all’infinito, accompagnate da un commento perpetuo. Ma come novelliere emula la vastità del poeta epico moltiplicando l’osservazione degli innume-revoli accadimenti umani, perpetuamente diversi, anche se l’abito dell’osservazione distaccata e la tendenza all’apologo e alla gnomica riassumono sentenzio-samente quell’inifinita diversità.
Creature e casi, giustapposti in una serie pressoché infinita, colti al di qua della religiosa sostanza di ogni individuo umano, innumerevoli personaggi, per ciascuno dei quali sembra ripetere quelle Informazioni del mio involontario soggiorno sulla terra, che abbozzò al termine della sua vita sotto forma di appunti, in tre cartelle. Ogni novella vale, naturalmente, per sé: un frammento di materia, ma puro come la luce, duro come il cristallo; ma le adunò in tante e tante raccolte, i cui titoli potrebbero servire di chiave per una mutevole situazione di lettura e per una conclusiva intelligenza di storia della poetica: titolo definitivo Novelle per un anno (v.), “che può sembrar modesto e, al contrario, è forse troppo ambizioso”, come disse nell’”Avertenza”; a noi sembra che si trattasse non solo di emular l’ambizione dei vecchi novellieri che proclamavano un numero (una novella, stavolta, per ogni giorno dell’anno), ma anche di sostituire all’enfatico storicismo delle filosofie contemporanee quella legge d’’rmonia che riempie di tanti quadri uno spazio misturato.
Si è detto che nella cifra riassuntiva della sua opera la gnomica saggistica contraddice e integra, dialetticamente, l’intuizione lirica: nella stessa vicenda di integrazione dialettica si dispone la sua drammatica di fronte alla sua narrativa; e si rammenti, per un complemento storico, che P. ripete in sé, nel giro della sua opera pur tanto vasta, quell’amplissimo processo che nel Cinquecento riassune in commedia la novellistica del Trecento e dei secoli seguenti: sai riprendendo nelle opere di teatro, tante volte, i temi di questa o quella novella, sia più intimamente, elaborando in termini di monologo, di dialogo e di vicenda commentata e partecipata da un pubblico, i dati che aveva svolto nel limite pur sempre circoscritto e circostanziato del suo novellare. A cominciar dalle prime commedie, La morsa (la trappola del sospetto taciuto, ma continuamente suggerito, che scatta sugli amanti colpevoli) e Lumie di Sicilia (v.) (l’amaro idillio di una lontananza che rende diversi, di un esser diversi che significa morire), del 1910, il dramma delle “Maschere nude”, titolo riassuntivo della sua produzione drammatica, è sempre quello: constrato fra l’illimite della vita e il limite della conoscenza e della pratica.
Scoperto il segreto, si applica alle composizione delle commedie con lo stesso fervore con cui nelle mattine della domenica, dalle 8 alle 13, libero d’impegni di scuola e di lavoro, se dedicava alla composizione delle novelle. Poiché l’antitesi, o soltanto posta, o dialetticamente risolta, gli è connaturata, so potrà osservare anche nell’ámbito della sua drammatica una direzione gnomica e una direzine drammaturgica: la prima si svolge in aploghi sceneggiati: Pensaci Giacomino (1916, v.); Liolà (1916, v.); Il piacere dell’onestà (1917, v.); L’uomo, la bestia e la virtù (1919, v.); e in commedie che potremo anche accettar di definire “commedie a tesi”, dove il soggetto esemplifica, dichiara e dimostra una sentenza: Così è (se vi pare) (1917, v.); Ma non è una coisa seria (1918, v.); Il giuoco delle parti (1918, v.); Tutto per bene (1919); Come prima meglio di prima (1920, v.); e la seconda si concreta nella trilogia del “teatro nel teatro”, di cui la prima commedia, Sei personaggi in cerca d’autore, commedia da fare (1921, v.), è il nodo di tutta la drammaturgia, anzi di tutta l’opera pirandelliana, e una svolta di tutto il teatro moderno: contrasto tra i personaggi, con la loro insopprimibile vita, cosa di natura, e gli attori, e le convenzioni del teatro e del costume e di una vita di rapporto che non può colmare l’infinito. Constrato tra personaggi e pubblico, che continuamente si scambiano le parti è Ciascuno a suo modo, (1924, v.), “commedia in due o tre atti con intermezzi corali”.
Constrato, infine, tra poesia e regia, è Questa sera si recita a soggetto (1929, v.); che deride le invenzioni spettacolose, e la fallacia della loro presunzione. Nella libertà che la conquista della verità poetica assicura all’immaginare e al riflettere e all’agire, il suo teatro, dopo Sei personaggi, ritrova o esalta modi che eran rimasti sottintesi o sommessi nella prima fase: tra la tragedia di Enrico IV (1921, v.), che denunzia l’irrigidirsi della vita negli idoli storici e il delitto che ne consegue; l’elegia del Vestire gli ignudi (1922, v.) che accompagna pietosamente alla tomba una vita che à dovuto metere l’illusione al posto della speranza; la festa corale della Sagra del Signore della nave (1924, v.).
E superando il suo provisorio agnosticismo con l’intima pietà dolente e l’ingenuo abbando-narsi, propone i tre miti della fede Lazzaro (1928, v.); della natura immortalmente materna La nuova colonia (1928, v.); della creatività della poesia I giganti della montagna (1933, incompiuto: v.). Non sarà difficile ricondurre a questi momenti essenziali altre opere del suo ricco catalogo. Le circostanze letterarie in cui si condizionano il primi tempi dell’attività pirandelliana, carduccianesimo e naturalismo, ànno minore importanza delle esperienze più recenti: crepuscolarismo ed ermetismo. Toni crepuscolari, nascoti fra parola e parola non mancano nemmeno nella sua opera, se è dato avvertirli ovunque, in Italia, nella letteratura dell’ultimo Ottocento e del primo Novecento.
Altri potrebbe tuttavia riferirli a un pudore più assorto, a un ritegno più schivo; e prefirire all’inquadratura letteraria un riferimento al costume isolano, cui ricondurrebbe, d’altra parte, anche lo scatto dei suoi giuochi mimici e la forza evidente delle sue maschere, nell’atto di coprire e scoprire un volto. Ma sarebbe erroneo parlar di regionalismo e di documentarismo siciliano: l’esperienza dell’isola nativa, con la sua natura e con la sua cultura, è parte della storia del poeta; ma la cifra della sua novellistica e della sua mimica egli la proietta su tutta l’Italia, dandone una interpretazione amara e dolente, se era facile ed enfatica quella delle mitografie ufficiale del suo tempo.
Il suo paesaggio è desolato, dove gli uomini si confinano i sé, in una solitudine ora accorata, e ora smaniosa; e siamo a quella temperie dove l’ermetismo accetta la solitudine, ma insieme la riscatta con la totalittà delle sue presenze: cosa che P. ottiene per via indiretta. Meno importante sarà l’inquadratura nel relativismo, che pur giovò, ngli anni “venti”, alla sua fortuna. Un passo ulteriore sarà dato compiere osservandolo nella prospettiva dell’espressionismo, che sempre più importante appare nella storia del gusto e del costume tra le due guerre: tale, addirittura, da condizio-nare lo scoppio della prima. Simboli e modi espressionistici risulteranno talune delle sue nevelle e del suo teatro, dove la realtà e isolata e impoverita in una fissità abnorme e dove il personaggio è ansiosamente estroverso in un gesto burattinesco e nella stessa verbosità che ne esaurisce il segreto e la carica vitale, finché cade a terra esausto. Eppure, dietro la sua novellisticaverti la presenza, interrotta sia pure o interrotamente avvertita, di una natura immortaleche non à mai esaurito le sue riserve di vita: e dopo il suo teatro la nuova drammaturgia, movendosi sulla sua linea s’appre al divino del personaggio e alla spirituale consolazione del coro.

 


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