“Anziosi di andare 
            alla caccia del selvaggio”
          Paolo Spedicato
           È 
            merito dello storico veneziano Piero Brunello aver contribuito a rinnovare 
            gli studi sulla nostra emigrazione storica nel Brasile meridionale 
            con questo libro di dieci anni fa, incentrandolo sul “mito della 
            frontiera” e dei pionieri italiani, elemento base per l’esercizio 
            di molto saudosismo in circolazione a partire dal centenario dell’emigrazione 
            italiana celebrato nel 1975. Stiamo parlando di Pionieri. Gli italiani 
            in Brasile e il mito della frontiera. (Roma: Donzelli, 1994).
È 
            merito dello storico veneziano Piero Brunello aver contribuito a rinnovare 
            gli studi sulla nostra emigrazione storica nel Brasile meridionale 
            con questo libro di dieci anni fa, incentrandolo sul “mito della 
            frontiera” e dei pionieri italiani, elemento base per l’esercizio 
            di molto saudosismo in circolazione a partire dal centenario dell’emigrazione 
            italiana celebrato nel 1975. Stiamo parlando di Pionieri. Gli italiani 
            in Brasile e il mito della frontiera. (Roma: Donzelli, 1994).
            Preceduti solo dagli emigranti tedeschi tra 1825 e 1850, gli italiani 
            fondarono colonie tra il 1875 e il 1915, dapprima vicino alla costa 
            a nord di Florianopolis, Blumenau, Brusque, Nova Trento, e progressivamente 
            verso sud, Grão Pará, Urussanga, Criciuma, e sud ovest, 
            Caxias do Sul (la vecchia Campo dos Bugres), Nova Trento, Nova Milano… 
            Le storie di emigrazione italiana qui trattate (statisticamente si 
            parla di 54 per cento di origine veneta, 33 per cento lombarda, 7 
            per cento trentina e 4,5 per cento friulana), hanno per protagonisti 
            tre soggetti: i bugres, i bugreiros e i coloni italiani propriamente 
            detti. Spregiativamente chiamati bugres o selvaggi, in realtà 
            si trattava di popoli indigeni nomadi dell’altopiano riograndense, 
            i Kaingang, e della Serra di Santa Catarina, questi ultimi particolarmente 
            isolati, gli Xokleng, chiamati anche i terribili Botocudos, dal caratteristico 
            labbro inferiore dilatato per via di un pezzo di legno o botoque. 
            Nei documenti ufficiali e nell’opinione pubblica li si contrapponeva 
            solitamente agli indios “ammansiti”, ai Guarani, che avevano 
            accettato la civiltà europea e la catechesi cristiana dopo 
            secoli di contatti con i padri gesuiti. Brunello, sulla scorta di 
            altri storici affermati quali Emilio Franzina, Mario Sabbatini, la 
            brasiliana Teresa Isenburg, e un controllo scientifico di fonti d’epoca 
            scritte e orali, confronta i comportamenti e i simbolismi dei due 
            campi contrapposti, indios e coloni, affermando che i primi 
          “Uccidevano molto raramente, 
            e solo per vendetta… Col tempo, perfino la ‘Blumenauer 
            Zeitung’, un giornale in lingua tedesca di Blumenau che predicava 
            l’annientamento degli indiani, avrebbe riconosciuto che i Botocudos 
            attaccavano le case solo per rubare accette di ferro, che se gridavano 
            e tiravano frecce e pietre contro le capanne lo facevano per consentire 
            agli abitanti di mettersi in salvo, e che avevano cominciato a uccidere 
            soltanto dopo la morte di uno di loro. Ma i coloni, se gli indiani 
            si avvicinavano alle case per curiosare, li ammazzavano sparando col 
            fucile” (p. 11). I coloni non sembravano gradire le simulazioni 
            dei nativi né i furti di utensili o cibo. 
          Due culture si contrapponevano 
            inesorabilmente, il nomadismo silvestre contro lo stanzialismo agricolo 
            degli insediamenti previsti dagli ingegneri della Compagnia di Colonizzazione 
            governativa o anche di qualche società privata italiana, come 
            quella del direttore di colonia, il palermitano Michele Napoli, “che 
            ottenne trentamila ettari ai piedi della Serra a prezzi irrisori” 
            (p. 17). I presupposti per una epopea tragica e sanguinaria erano 
            già tutti presenti. Nel furto degli attrezzi di metallo e delle 
            pentole della vita quotidiana dei coloni ad opera degli indios c’era 
            l’individuazione degli strumenti della colonizzazione che attraverso 
            il disboscamento sistematico andava a distruggere il loro habitat 
            e la loro cultura. Già nel 1856 il dottor Hermann Blumenau 
            chiedeva al governo della provincia l’invio di soldati atti 
            a implementare “una disinfezione completa” del territorio. 
            Questo linguaggio da “soluzione finale” non deve meravigliare 
            e va riportato al progetto di massima del governo centrale di “branquear” 
            il paese tramite l’influsso della emigrazione di origine europea 
            e al generale clima di razzismo e di paura nei confronti di quei diversi 
            che rifiutavano l’integrazione e la radicale trasformazione 
            del territorio: “del resto, anche se si avvicinavano alle colonie 
            solo di notte e mai per uccidere, rubavano ‘come serpenti’, 
            ed era impossibile convertirli al cristianesimo” (p. 13), come 
            scrivevano i giornali di Santa Catarina annunciando le spedizioni 
            di bugreiros o cacciatori di indios. 
            All’arrivo degli italiani, le spedizioni contro i villaggi indigeni 
            facevano parte della norma. Un mantovano scriveva ai fratelli in Italia 
            d’essere stato ben ricevuto da “quei cristiani e molto 
            più timorati di Dio che in Italia”, di non aver contratto 
            debiti col governo, anzi di aver ricevuto “una mancia” 
            con la quale avevano comperato le armi “ansiosi di andare alla 
            caccia del selvaggio”, ed erano poi andati a caccia “non 
            sono [si legga: solo] delle bestie feroci ansi dei buoni selvaggi” 
            (p. 31) Lettera da Brusque, 29 settembre 1876). (continua – 
            I)