La sfida del traduttore: tradurre senza tradire

I tradutori
Maria Helena Küner
Giuseppe D'angelo

Il problema di conciliare la lingua italiana, veicolo di comunicazione nazionale, con il ricco e vario mondo dei dialetti locali, canale di trasmissione delle fantasie e sensazioni dell’infanzia e dell’adolescenza, sempre è stato presente in molti scrittori italiani, classici e contemporanei.
In “Un filo di fumo”, piacevolissimo romanzo in cui è dipinto con insolito umorismo un microcosmo provinciale, singolare in molti aspetti e universalmente riconoscibile in tanti altri, è nel linguaggio che l’autore, Andrea Camilleri, troverà divertendosi, una delle sue migliori risorse.
Infatti, come osserva il critico letterario Dante Maffia, “Per evitare che il lettore si senta distante dalla realtà rappresentata, Camilleri usa un linguaggio un tanto peculiare che non è quello di Giuseppe Verga o quello dei “pastiches”, ma quello di una popolazione che si è appropiato, come di un grande beneficio dei contributi rigidi e unificatori dei mass media. Tale contaminazione crea in questo modo, un miscuglio strutturale e lessicale, dal quale vieni fuori un effetto veramente interessante, nonostante non sai sempre fluido o ben amalgamato. In certi momento si ha l’impressione che la pagina subisca l’imprevista intrusione di tale lessico che rompe l’andamento del periodo, anche quando non è necessario”.
Lo stesso autore ha coscienza delle difficoltà che il suo “gergo” crearà persino nel lettore italiano e perciò correda il suo romanzo di un glossario di ben dodici pagine.
Nella sua ben riuscita operazione di “riprodurre questo suo universo”, l’autore crea una sfida in più per i traduttori, costretti a, non solo includere note a piè di pagina che spieghino la complessità di certe espressioni, e chiariscano i riferimenti ad avvenimenti storici particolari - è il caso per esempio del riferimento ai fasci siciliani che nulla hanno a che fare com i fasci di Mussolini -, quanto, sempre quando è possibile, cercare il corrispondente dei proverbi popolari regionali italiani, con detti ed espressioni brasiliane.
Gli esempi sono frequenti e numerosissimi in Camilleri e ne citiamo solo alcuni:
- “prendere due piccioni con una fava” o “due quaglie con un botto” equivalgano al motto brasiliano “matar dois coelhos de uma cajadada”;
- “salta il trunzo e va in culo all’ortolano”, che indica chi è destinato ad essere disgraziato a causa della posizione sociale che occupa, (ossia, alla lettera, se a causa di un forte colpo della zappa, salta un pezzo di legno, esso andrà ad infilarsi fatalmente nel culo dell’ortolano), ha il suo equivalente nel “a corda arrebenta do lado mais fraco”;
- “supra a pasta, minnulicchi” (“sulla pasta, mandorlette”) è l’espressione comune, il cui equivalente in Brasile può essere “chove no molhado”, ossia aggiungere disgrazia a disgrazia;
- qualcosa di simile si verifica com “cu venni appressu aggruppa i fili”, in cui il “legare i fili” che tocca a chi sta dietro, letteramente non avrebbe senso, costringendo il traduttore a cercare il proverbio equivalente, “quem está por baixo é que leva a pior”;
- o ancora, dello stesso tenore, “cu nasci tunnu non può muriri quatratu” (chi nasce tondo non può morire quadrato), tipica espressione usata daí membri di “Cosa nostra”, che rappresenterebbe l’ineluttibilità del destino espressa in “quem nasce para dez réis não chega a um vintém”.
A volte sono espressioni o termini peculiari della cultura locale, che richiedono anch’essi conoscenza e spiegazione:
- “... con gli occhi di fuori come se fosse passato l’angelo”, si riferisce alla leggenda popolare secondo la quale i bambini che fanno una brutta faccia o smorfie, e se per caso l’angelo passasse in quel momento, rimarrebbero così per sempre ;
- qualcuno che offre “chiacchiere e tabacchiere di legno” (“miudezas e caixinhas de madeira”), sta alludendo al proverbio napoletano “Chiacchiere e tabacchiere di legno, il Banco di Napoli non s’impegna” spiegazione del fatto che in quel banco esiste una sezione di pegni, creato per aiutare i più poveri, dove si accetta come pegno qualsiasi oggetto, meno le tabacchiere (scatole per il tabacco da fiuto in legno), le quali, non valendo molto, non merita il prestito;
- dire che qualcuno “... si sentì preso daí turchi” (“presos pelos turcos”) è un’espressione legata allo spavento di cui erano preda le popolazioni litoranee del Sud d’Italia all’apparire dei pirati saraceni (turchi), e per estensione a qualsiasi paura e terrore;
- “mettiri u carricu di unnici”, in italiano vuol dire “attizzare una lite argomenti che esasperano gli animi” = estimular uma briga; botar lenha na fogueira.
È ovvio che, tentando una traduzione di tali espressioni, si correrebbe il rischio di dire veri e propri spropositi. Per quanto riguarda i lemi locali contenuti nel glossario, alcuni dei quali persino non registrati nei dizionari dialettali siciliani, tra essi appaiano delle vere perle:
- “daresi adienza” significa “badare a se stesso” (cuidar de si mesmo); “appinnicunato” in italiano “semi-addormentato”, che deriva da “pinnicuni” (la romana “pennichella” = siesta); “babbaluci” (lumaca= lesma); “cajorda”, nella traduzione italiana, “sporca, sordida”, che significa anche “prostituta di basso rango” = piranha; “camurrìa”, seccatura gigantesca = grande chateação; “catamini, cataminarsi”, significa muoversi” = andar, “nun ti cataminari (non fare il più piccolo movimento) ma l’autore con molto senso dell’umore, avverte: “se in Sicilia uno ti dice “mòviti” tu resta assolutamente immobile a scanso di equivoci; “garruso” che a seconda dell’intonazione può avere significati diversi, come furbo, figlio di puttana, giocherellone; “gnutticatùra”, parola di difficile traduzione in italiano, figuriamoci in altre lingue: comunque potrebbe equivalere a “in sovrappiù”; “mutàngheri” (silenzioso di proposito);
“omu di panza” (persona ligia all’omertà), in altre parole “mafioso”; “scecchigno” (a mo’ d’asino); “tringulimìnguli” (barcollante = cambaleante); “ummira” (ombra = sombra); “zaùrdo” (zotico = rústico).
Da quanto anzidetto circa le difficoltà incontrate nella traduzione di Camilleri, si può capire come noi traduttori saremmo stati facilmente tentati, ogni tanto, di mettergli le corna.

E assieme agli uomini di mare, agli spalloni, a non contare c’erano i carrettieri, o meglio i conduttori di carretti, perché cavallo e carretto non gli appartenevano, rimbecciliti dal percorso sempre uguale dal deposito di sùlfaro alla plaja e dalla plaja al deposito, e più corse facevi più guadagnavi ma attento a non struppiare il cavallo, a non rompere una ruota, allora ti giocavi due o tre settimane di una paga già ridotta all’osso dalla percentuale dovuta al padrone del cavallo e carretto; a non contare c’erano i pirriatori delle cave e i minatori di sùlfaro o di sale, che gli occhi gli lacrimiavano quando tornavano a vedere il sole e la notte la tosse li martoriava, i polmini fattinpiù polvere e pietra che carne; a non contare c’erano i pescatori delle paranze che dopo una giornata di mare tinto nella quale s’erano giocata la vita, si portavano a casa mezzo chilo di trigliola che doveva levare la fame a dieci persone (...). Ma dato che si era fatta l’ora di mangiare, pure loro che non contavanostavano mangiando. Lo facevano però com fantasia, perché c’era da prendersi per il culo, convincersi cioè che la scanata di pane di frumento di un chilo fosse appena bastevole per il companatico che non andava più in là di una sarda salata, di un uovo ciruso, di un pugno di olive. Allora si faceva penzoliare dalla cima di una canna la sarda salata e si dava un mozzicone al pane e una leccata di sarda, una sola passata di lingua pelle pelle: i denti sulla sarda si cominciavano ad adoperare verso la fine e il companatico era diventato cosa ragionevole. Oppure si metteva in bocca tutto intero l’uovo ciruso, che per questo scopo doveva essere bem sodo, lo siteneva un poco tra lingua e palato e poi sempre tutto intero lo si ritirava fuori e su questo sapore uno poteva mangiarsi magari mezza scanata, e capace che in caso di bisogno l’uovo era ancora buono per il giorno dopo.. I più fortunati, quelli ai quali il lavoro dava diritto per tradizione alla calatina, al companatico a spese del padrone, mangiavano caponatina, un’insalata di capperi, sugo, sedani e melanazane annegata nell’aceto, e si sentivano meglio di un re.
Su consiglio di Trifiletti, che era pure persona di prudenza, si allontanarono ancora un poco.
E dalla nuova posizione, dopo qualche minuto, sentirono prima un boato lungo e lento, che proprio se la pigliava comoda, poi videro l’acqua che cominciava a bollire e mentre gli scafi prendevano a tremare come per la terzana, un’altissima colonna di fumo e faville si alzò a picco, facendo voci di raggia e rumori proprio come una persona viva. Mentre il sole diventava grigio, e una cenere spessa e densa entrava col fiato nei polmoni, pregando la Madonna e tutti i santi, Currao e Trifiletti, ammammaloccuti, si resero conto che stavano assistenso a un fenomeno mai visto prima: un’isola vulvanica nasceva sotto ai loro occhi. Due giorni ci mise il mare a sgravarsi, e per tutto il tempo stette a torcersi, ora arrabbiato e schiumoso ora così piatoso nel suo lamento continuo, che veniva desiderio di fargli una carezza: poi, il 15 luglio, l’isaola emerse tutta intera e il mare parve addormentarsi di colpo, ormai giunto allo stremo.
Abbacatosi il vento e passata la mano all’acqua di cielo, corse Agostino Cultrera verso casa e il gran moto che aveva addosso gli faceva fare gesti, lo faceva variare, scartare da un lato all’altro della strada, pareva assicutato da uno sciame invisibile. Manco si accorse di avere salito la scala, spalancò la porta, si precipitò allo scagno. E subito sentì che il cuore gli cadeva nelle scarpe: la lettera che aveva lasciato sul piano del tavolo, qualle com la quale denunziava l’ammanco di zolfi nei magazzini Barbabianca, non si vedeva più> Sentendo materialmente i capelli rizzarglisi in testa all’idea che suo figlio avesse potuto portarlo allo spedizioniere o che un colpo di vento l’avesse fatta volare in strada dalla finestra aperta, si accasciò su una sedia sicuro che questa volta gli veniva una botta di sangue, se già non aveva manco la voce per chiamare sua moglie che a quell’ora se ne stava in camera da mangiare a fare il tombolo.
Padre Imbornone aveva cominciato a fare voci che gli preparassero il suo scappacavallo che ancora la parte poppiera della “Tomorov” non s’era inclinata sul fianco vomitando casse, corde, pezzi di legno e ferro, piccoli pupi che comicamente si agitavano ed erano uomini. Affascinato Lemonnier aveva visto dal porto di Vigàta una, cinque dieci farfalle bianche volare verso la nave miracolosamente tenendosi in bilico sopra i cavalloni, sparendo e ricomparendo tra le valli e i monti che il mare copiava dalla terra, frece candide che ostinatamente si dirigevano al bersaglio vincendo, e questo Lemonnier l’intuiva benissimo angoscia e paura solo perchè nel luogo verso il quale puntavano gridava un’angoscia maggiore, una paura più forte reclamava a gra voce una mano da stringere, una parola incitante, un aiuto fatto magari solamente d’occhi amici che ti taliano. Pareva pigliato dal fuoco di santantonio, Padre Imbornone faceva salti ora su un piede ora sull’altro, era diventato così rosso in faccia che uno volendo ci poteva cuoce un uovo...
Stefanuzzo non le diede risposta ed Helke fu obbligata a voltarsi del tutto, assurdamente sperando in quel momento di trovarsi in Svizzera, lontano le mille miglia dalla Sicilia e da suo marito< Ma quello che le si presentò agli occhi la sbalordì. Stefanuzzo aveva gettato via il lenzuolo e si era messo a pancia all’aria facendo vedere che proprio sotto a dove finiva la fasciatura si alzava un palo citrigno come mai lo era stato e lo stesso Stefanuzzo stava a taliarselo com una curiosità sicuramente superiore a quella della signora Helke.
“Ma non ti farà male? “domandò la signora, trattenendosi dal prenderlo in mano, carezzarlo e baciarlo: quello era il segno che, comunque fossero andate le cose, la faccenda del tettomorto aveva imboccato una via senza pericole conseguenze. Si trattene perché ci aveva provato una sola volta, ancora in Svizzara, e Stefanuzzo le aveva scostato bruscamente la testa e aveva detto, inorridito: “Ma che fai? Sei pazza? Queste sono cose da buttane!
“Non ti farà male?”, ripeté visto che Stefanuzzo continuavo a taliarselo affascinato. “No, se tu mi vieni di sopra”rispose suo marito. Helke obbedì. Mai Stefanuzzo si era sognato di farlo in quel modo peccaminoso; una volta al mese, quando si decideva, non si levava manco la camicia da notte e voleva cha magari Helke tenesse la sua. Questa volta invece, mentre Helke lo cavalcava, arcuò il corpo lamentandosi e g;liela sflilò dalla testa e non si sognò di scendere dal letto lasciando l’operazione a metà, come sempre aveva fatto le altre volte, per astutare tutti i lumini, mentre Helke che rimaneva in tredici ristabiliva l’equilibrio religioso sparando mentalmente, e in tedesco, tutte le bestemmie checonosceva. Solo al momento giusto Stefanuzzo si preoccupò di cautelarsi l’anima com una giaculatoria che Padre Cannata gli aveva insegnato: “Non lo fo’per piacer mio/ ma per dare un figlio a Dio “.

 

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E juntamente com os “homens do mar”, com os estivadores que não contavam, estavam também os carreteiros, ou melhor, os condutores de carretas, porque o cavalo e a carreta não lhe pertenciam, imbecilizados pelo percurso sempre igual, do depósito até a praia, e da praia até o depósito, e quanto mais corrida faziam mais ganhavam, rendo apenas o cuidado de não aleijar o cavalo ou de não quebrar uma roda, porque perdiam, no caso, duas ou três semanas de um salário já ínfimo, dada a percentagem devida ao dono do cavalo e da carreta; entre os que também não contavam estavam ainda os picareteiros dos canteiros e os mineiros de enxofre ou de sal, cujos olhos lacrimejavam quando voltavam a ver a luz do sol e que, à noite, eram martirizados pela tosse, os pulmões tornados mais poeira e pedra que carne; não contavam ainda em absoluto os homens das barcas de pesca que, depois de uma jornada em mar bravo, onde arriscavam a vida, traziam para casa meio quilo de salmonetas que deveriam matar a fome de dez pessoas (...). Mas, como tinha chegado a hora da refeição, até eles, que não eram levados em conta para nada, estavam comendo. Só que o faziam no faz-de-conta, porque era como se fingissem que comiam, ou seja, como se estivessem convencidos de que uma broa de trigo de um quilo fosse suficiente para complementar algo que não era mais que uma sardinha salgada, um ovo cozido, ou um punhado de azeitonas. Então, fazia-se pendurar em um pedaço de cana o peixe salgado, dava-se uma mordida no pão e uma lambida no peixe, só uma leve lambidinha na pele, as mordidelas na sardinha só começavam a ser dadas no final, quando se chegasse a um razoável equilíbrio na relação entre o pão e aquele acompanhamento. Ou então punha-se na boca o ovo cozido inteiro, que para tal devia estar bem duro e que se mantinha um pouco entre a língua e o palato, para, em seguida, ainda inteiro, tirá-lo da boca e com o sabor que dele ficava comer o resto da broa; e era possível, em caso de necessidade, que o ovo ainda servi-se para o dia seguinte. Os mais afortunados, aqueles a quem o emprego dava direito, por tradição, a um complemento, a uma regalia dada pelo patrão, comiam caponatina, uma salada de alcaparras com molho, aipo e beringelas maceradas no vinagre, e sentiam-se mais que um rei.
A conselho de Trifiletti, que era também uma pessoa prudente, afastaram-se um pouco mais.
E a partir da nova posição, depois de alguns minutos ouviram primeiro um forte estrondo, prolongado e lento, de uma lentidão tranqüila, a seguir viram a água principiar a ferver, e, enquanto as embarcações começavam a tremer como se estivessem com febre terçã, uma altíssima coluna de fumaça e faíscas levantou-se na vertical, com silvos de rumor e raiva como os de uma pessoa viva. À medida que o sol se tornava cinzento, que uma cinza espessa e densa entrava pelos pulmões ao respirar-se, e que os marujos, mortos de medo, caíam de joelhos implorando à Virgem e a todos os santos, Currao e Trefiletti, estupefatos, se deram conta de que estavam assistindo a um fenômeno nunca antes visto: uma ilha vulcânica nascia diante de seus olhos. Dois dias levou o mar neste parto, em contrações que duraram todo este tempo, ora raivoso e espumejante, ora tão compassivo em seu ininterrupto lamento que dava vontade de acariciá-lo. Depois, em 15 de julho, a ilha emergiu por inteiro, e o mar pareceu adormecer de repente, como se já estivesse exausto.
Amainado o vento e com o céu lavado após a chuva, Agatino Cultrera correu para casa e a grande agitação que sentia por dentro o levava a gesticular, desnorteado, pulando de um lado para o outro da rua, como que perseguido por um enxame invisível. Nem se deu conta de ter subido as escadas e escancarando a porta, precipitando-se escritório adentro. E de repente sentiu como se o coração lhe saísse pela boca: a carta que havia deixado sobre a mesa, aquela em que denunciava o desfalque de enxofre nos depósitos Barbabianca, não estava mais ali. Sentindo os cabelos literalmente de pé à idéia de que o filho pudesse tê-la encaminhado à expedição ou que uma rajada de vento a tivesse feito voar pela janela aberta para a rua, desabou em uma cadeira, certo de que desta vez teria um enfarte, visto que lhe taltavam forças até para chamar sua mulher, que àquela hora costumava ficar na sala de jantar fazendo renda.
Padre Imbornone tinha começado a gritar, pedindo que lhe aprontassem a charrete no momento em que a popa do Tomorov ainda não se havia inclinado de lado, vomitando caixas, cordas, pedaços de madeira de ferro, e pequenos bonecos que se agitavam comicamente – e eram os homens. Fascinado, Lemonnier tinha visto uma, cinco, dez borboletas brancas voarem do porto Vigàta rumo ao navio, mantendo-se milagrosamente em equilíbrio sobre as violentas ondas, desaparecendo e voltando a aparecer entre os vales e montanhas com que o mar copiava a terra, cândidas flechas que teimosamente dirigiam-se para o alvo, superando, e isto Lemossier intuía muito bem, a própria angústia e o próprio medo porque do lugar para o qual se dirigiam chamavam uma angústia maior e um medo mais forte, pedindo, em altos brados, uma mão estendida, uma palavra de estímulo ou uma ajuda, mesmo que feita só de olhares amigos. Padre Imbornone parecia tomado pelo fogo de Santo Antônio, saltava ora num pé, ora no outro, o rosto tão aceso que se diria possível nele estrelar um ovo ...
Stefanuzzo não lhe respondeu e Helke foi obrigada a voltar-se por inteiro, desejando naquele momento encontrar-se na Suíça, a mil milhas de distância da Sicília e de seu marido. Mas o que se apresentou diante de seus olhos deixou-a no maior espanto: Stefanuzzo havia jogado o lençol para o lado e se havia posto de barriga para cima, mostrando que, exatamente onde terminava a atadura, levantava-se um pênis mais ereto do que nunca, e o próprio Stefanuzzo estava olhando para ele com uma curiosidade ainda maior que a da Senhora Helke.
“Mas não vai te fazer mal?”, perguntou a Senhora Helke, refreando seu desejo de agarrá-lo com a mão, acariciá-lo e beijá-lo: aquilo era um sinal de que, fosse qual fosse o andamento das coisas, o assunto do sótão tinha tomado um rumo sem graves conseqüências. Refreava-se porque já havia tentado, uma só vez, ainda na Suíça, e Stefanuzzo lhe tinha afastado bruscamente a cabeça, dizendo horrorizado:
“Mas o que está fazendo? Enlouqueceu? Isto são coisas de putas!”
“Não vai te fazer mal?”, repetiu ela, vendo que Stefanuzzo continuava a olhar o próprio pau, fascinado.
“Não, se você vier por cima de mim”, respondeu seu marido. Helke obedeceu.
Nunca Stefanuzzo sonhava fazê-lo daquele modo pecaminoso; uma vez por mês, quando estava disposto, nem tirava o camisão e pretendia até que Helke também mantivesse sua camisola. Desta vez, pelo contrário, enquanto Helke o cavalgava, ele arqueou o corpo, gemendo, tirou a camisola dela pela cabeça, e nem pensou em descer da cama, deixando a operação pelo meio, como costumava fazer nas outras ocasiões, para apagar todas as lamparinas, enquanto Helke, que ficava ainda com tesão, restabelecia o equilíbrio religioso despejando mentalmente em alemão todas as blasfêmias que conhecia. Só ao chegar no auge, Stefanuzzo ainda se preocupou com a salvação de sua alma com uma jaculatória que Padre Cannata lhe havia ensinado: “Não o faço por prazer meu / mas para dar um filho a Deus”.
 


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