MARCO LUCCHESI INTERVISTA

Corrado Calabrò

Corrado Calabrò é daqueles poetas que fazem de sua obra uma irresistível demanda de conhecimento e transformação. Depois de uma tarde na bienal do livro, conversamos longamente e à distância, numa conversa marcada por um presto con fuoco, executada num piano invisível.

La genesi sempre impossibile, oppure l´incipit di una vita poetica. Narraci come si è avverata, appresa, in te, un nome, un destino, una formidabile vis poetica, dai tempi mitici dell´infanzia, come avverte il Maffia?
Non so dire bene come, ma ricordo dove e quando; e mi chiedo da sempre (e da sempre provo a rispondermi) perché.
Sono nato sulla riva del mare; certi autunni le mareggiate giungevano fino alla soglia della nostra casa ai bordi della spiaggia. L’estate era il mio ámbito di libertà. Seguivo con lo sguardo le navi che, lasciato lo Stretto di Messina, rimpicciolivano sempre più fino a venire inglobate nella distesa liquida. Pure, mi sembrava di continuare a vederne una parvenza, come il sorriso del gatto sparito di Lewis Carrol. Avrei voluto seguirle a nuoto o in barca a vela spingendomi fino alla soglia che segna il limitare a un nuovo giorno. “Dove vanno?” mi chiedevo “E da dove vengono?” Da dove spira il vento? E verso dove? Gli uccelli forse lo sanno, inconsciamente; e i poeti.
Cosa ci spinge alla scommessa così spesso perdente, al tentativo assoluto e fallimentare della poesia? Cosa ci spinge ad innamorarci? Il bisogno della parte mancante (forse solo implicitamente) al senso-non senso della nostra vita.
La poesia è il bisogno dell’illimite: incombe sul nostro senso dell’esistere, ancorché percepibile solo intuitivamente come la massa mancante dell’universo visibile. Sentiamo il bisogno della poesia come gli alpinisti sentono il bisogno di salire sempre più in alto. Nasce, paradossalmente, da una carenza di linguaggio, il bisogno della poesia. In un mondo, in un’epoca logorroici, quando vogliamo dire qualcosa di assolutamente nostro, di nuovo, di vero, di non detto, forse d’indicibile, ci accorgiamo che ci mancano le parole.
Il senso si promette alla poesia come la presenza rimandata di un’assenza, che si dispone e si riposiziona nella misura in cui crediamo e vogliamo percepirla, come se la scala di Jacob si accrescesse sempre più di nuovi gradini secondo il nostro desiderio di salire. Ci avviciniamo ma non riusciamo a raggiungerla.

Ci sarebbe - come hai sfiorato a Rio - una poesia del Sud, con la quale ti riconosci (e ti rimescoli in modo ungarettiano, dei fiumi) e dalla quale ti discosti. Come si farebbe tale dialettica, e in quale punto il rapporto lingua e dialetto si raffigurano in tale tensione (o tenzone)?
Ci sono –mi dicono- in alcuni miei versi inflessioni che risentono della poesia di García Lorca e di Neruda. Ma devo dire che i miti greci s’intessono nella trama della mia poesia con una spontaneità irresistibile, fornendo alla contemporaneità un ordito senza tempo che diventa l’ordito occulto del mio tempo. Certo sono legato, anche poeticamente, alla mia terra e ancor di più al mio mare: lo Stretto di Messina, con la sua Fata Morgana (ancorché appaia una volta ogni vent’anni, come ogni vent’anni fiorisce e muore l’agave), è un calco di bellezza primigenia col quale si è dovuta confrontare qualsiasi mia successiva emozione paesaggistica: e qui, nella baia di Rio, ho visto di che emozionarmi. Della mia terra ho preso il carattere sanguigno, quel vitalismo che ho ritrovato in Brasile, il coraggio e quel gusto della sfida che mi ha spinto a contestare il potere dei gruppi letterari imperanti, dei fabbricatori del nulla (fuor che del loro stesso potere), letterati artificiosi, esangui e devitalizzatori della creatività altrui: il vero poeta sa di terra, diceva giustamente Goethe; di terra, di mare, di voglia d’oceano, d’illimite.

Pure a Rio ci parlavi degli eredi di Dante, alla biennale del libro. Nel senso dell’ultima risposta, oppure aldilà di quella, in che modo gli abissi d´acqua e di scienza della poesia di Calabrò rientrano nel modello del nostro Padre - come lo intende Mario Luzi. Con una linea assolutamente affascinante che si muove tra innovazione e conservazione. Una scelta prettamente italiana, di una poesia che legge sempre se stessa (e Tasso, e Ariosto, e Dante e Virgilio) e che segue rivolta ad una nostalgia del futuro. Inoltre, la scienza è una delle forme varie che compongono il sistema della tua poesia, infondendole un gaio rigore in un nuovo paesaggio semantico davvero notevole, come la fisica delle particelle e dell´astronomia, come l´effetto-doppler-frizeau, il principio dell´incertezza di Heisenberg, o le particelle W e Z. Ma vedo che oltrepassi un modello lucreziano, didascalico e tutto abbracci con un respiro lungo e breve, della parte e del tutto, nei momenti di affetto e disperazione...
Un tempo tutte le strade partivano da Roma. Andassero in Gallia, in Germania, in Pannonia, in Oriente, il chilometro zero era sempre al Campidoglio. E in qualsiasi punto del mondo abitato, dell’ecumene, ci si trovasse, era sempre rispetto a Roma che si misurava la distanza. E tutte le strade riportavano a Roma. Così tutta la poesia (o almeno tutta la poesia italiana) non può non misurarsi con Dante, per temerario che sia il confronto, così come Dante dovette misurarsi con Virgilio e con la poesia latina. Dante non è solo il padre della poesia e in parte della lingua italiana; Dante accolse nella sua Commedia la summa delle conoscenze scientifiche e filosofiche, oltrechè teologiche, del suo tempo, poeticamente trasposte. La scienza (a differenza della filosofia e della teologia) ha fatto da allora grandi progressi. Sarebbe assurdo non tenerne conto, escludere la scienza dal nostro linguaggio e dal nostro orizzonte, quando è ormai indissociabile dal nostro modo di vivere, di pensare, di esprimerci, di relazionarci.
D’altra parte, nella sua frontiera più avanzata, la scienza si è incredibilmente avvicinata all’arte e al pari della poesia si affida all’intuizione. Oggi, pure la verità scientifica si rivela, in certo senso, solo attraverso metafore intellettuali, ancorché col supporto di tecnologie automatiche.
[Mi spiegherò con un esempio. Le particelle subatomiche non sono da noi direttamente percepibili. L’espediente cui ricorre la scienza moderna per coglierne un segno è questo: in circuiti potentemente magnetizzati si fanno scontrare come palle di biliardo particelle che viaggiano ad altissima velocità in direzione opposta. Le particelle non si vedono né prima né dopo lo scontro, ma in appositi rivelatori alcune scie luminose, con la loro angolazione e con la loro curvatura, consentono di desumere la brevissima esistenza di particelle subatomiche e di forze subnucleari. Sennonché, anche quando l’esperimento riesce, esso ha fornito una rappresentazione solo indiretta, per così dire metaforica, della realtà che lo scienziato ha intravisto intuitivamente. Non si sono viste nel rivelatore le particelle subatomiche né le loro onde, ma semplicemente i segni indiretti della loro presenza. Non solo; spesso non si vedono nemmeno le tracce delle particelle realmente esistenti in natura e ricercate, bensì quelle di altre particelle create artificialmente dall’alta energia della macchina acceleratrice, che delle prime rappresentano solo una trasmutazione, un effimero movimento di passaggio, poco più di un messaggio voluto, che si esaurisce in se stesso. Si esaurisce, cioè, nell’annunzio dell’evento realizzatosi in un attimo; così, senza alcuna funzione ulteriore. Eppure è l’ultimo orizzonte della realtà scientifica d’oggi. Non c’è in questa epifania della scienza, che si rivela solo per metafore, un accostamento profondo dell’arte?]
Come che sia, non si può non fare i conti con Dante. In una mia recente poesia, Chiamata non risposta, ho voluto sperimentalmente adoperare il linguaggio automatico dei telefoni cellulari. Eppure anche lì, in una situazione e in un linguaggio modernissimi, è riaffiorato il ricordo di Dante, dei suoi versi eterni sull’amore di Paolo e Francesca, sull’amore suscitato dall’amore dell’amante, l’amor che a nullo amato amar perdona.
Con ciò non intendo dire che la poesia (e in particolare la mia poesia) sia rivolta al passato. No, retrocede come chi faccia dei passi indietro sul terreno consolidato per prendere meglio lo slancio e tentare il salto oltre l’abisso che gli si spalanca davanti: l’abisso che separa la bellezza che ha intravisto dalla sua capacità di rappresentarla.
C’è una mia poesia, recorrimento, che esprime questo protendersi del poeta verso il futuro, questo voler precorrere il proprio tempo pur conservando la memoria del passato:
[Io li rivedo/li rivedo spesso/sì li rivedo molte volte in sogno/quelli che m’hanno preceduto/nel mio passato,/a occhi chiusi nel segno della fede./Una notte quand’ero ragazzino,/vedendo in pieno sonno la parete/impallidire come avviene all’alba,/mi resi conto d’essermi svegliato/da tutta un’altra parte del pianeta./Non osavo guardare il cielo nero/per il terrore d’un sole notturno/finché capii che bastava spostare/indietro le lancette sul quadrante/perché ogni cosa tornasse naturale./Ma perché allora non spostarle avanti?/Io, io/vorrei conoscere senza sapere/il da farsi come gli animali/che preparano il nido,/come i veggenti ciechi/che leggevano il volo degli uccelli/e vedevano in sovrimpressione/nei sogni altrui/la presto smemorata dimensione/di un domani che, a piacere del fato,/sarebbe oppure non sarebbe stato./Io, io… vorrei precorrere il mio tempo in spazi/di curvatura pressoché infinita/se esiste un’astronave che mi porti fuori di me/a occhi aperti, per quanto m’allontani.]
Nel momento in cui avvertiamo un’immagine nuova di bellezza - quell’immagine di bellezza che vediamo noi soli - in quel momento siamo tutti potenzialmente poeti. Ma lo siamo, lo diventiamo davvero, solo se e nella misura in cui riusciamo a far percepire ad altri quello – quel qualcosa di unico e di irripetibile – che abbiamo intravisto.
La suggestione poetica viene a visitarci come il primo imprinting dell’amore. Quanti ragazzi hanno guardato quella ragazza senza vedere in lei nulla di più delle altre? Poi un ragazzo s’innamora e vede in lei una bellezza che nessun altro ha visto. La poesia, l’arte fanno lo stesso. Ci rivelano una bellezza che era sotto pelle e che per trasparire abbisognava dell’asportazione della cateratta dell’abitudinarietà: un intervento oculistico di chirurgia estetica che ci apre gli occhi.
La poesia è un interruttore, un commutatore di banda, che fa sì che appaia sul nostro schermo interiore qualcosa che avevamo sotto gli occhi e che guardavamo senza vedere. Uno sbalzo di livello che sposta un po’ più in là il nostro orizzonte mentale, o così ci piace credere. E’ poeta chi riesce a far scattare quell’interruttore, come è musicista chi riesce a tradurre in uno spartito le note percepite nel suo orecchio interiore.
Solo che, anche quando il tentativo può dirsi riuscito, il lampo di bellezza che gli altri vedono non è propriamente quello che il poeta voleva mostrare; è una bellezza mutante, è un messaggio che si rigenera per interazione e che non è quello voluto (e men che mai quello ricercato) dal suo autore bensì un messaggio che si rivela a lui stesso nell’atto in cui lo decripta ricetrasmettendolo. Un messaggio indotto dall’inconscio, non trasmesso concettualmente, ancorché filtrato attraverso i circuiti cerebrali e quindi con la stessa sequenzialità del linguaggio (il nostro cervello ha una struttura linguistica). E’ come se ci fosse per la poesia (per l’arte) una legge naturale tutta sua che rifiuta al tempo stesso la casualità degli accostamenti e la redeterminazione della loro ricerca. Come se esistesse una scala cromatica che il poeta deve scoprire a occhi chiusi.
Sì, caro Marco, come dicevamo a Rio, a volte, in un momento assistito dal favore fuggevole del dio, l’espressione poetica genera una sorta d’onda lunga, una curva emotiva del pensiero, dando l’impressione di fornire una risposta a una nostra attesa seminconscia e tuttavia avvicinandosi solo asintoticamente alla congiunzione tra significante e significato; e quando pure la congiunzione suppostamente avvenga, rimane una sorta di indecidibilità sull’effetto dell’impatto, analoga al principio di indeterminazione di Heisenberg. Un messaggio non detto, che tuttavia scaturisce da quello specifico detto, un’evocazione nell’udito interiore generata da un ascolto insostituibile e indeterminato al tempo stesso. Il valore medianico della parola, della combinazione poetica, non sta in quello che dice ma in quello che suscita.
La poesia è come un sogno che dica e non dica ma che (come certi sogni in prossimità del risveglio) ci lasci la premonizione di una rivelazione imminente. Sì, un soffio sembra attraversare in certi momenti il nostro stato d’animo e preannunciarci che sta per recarci la rivelazione di qualcosa che ci predispone a un’improvvisa sovradeterminazione. E’ un messaggio scritto con inchiostro simpatico tra le righe di una missiva pervenutaci. Si rivela solo se l’esponiamo alla fiamma della nostra attesa segreta, determinando una reazione per simpatia (sumpaqeia).
Se non sovviene in qualche misura a un’attesa, se non genera un preannuncio, se non induce un presentimento prima e una sovradeterminazione poi, il messaggio resta sigillato, inerte, non entra in risonanza, non provoca quel trasalimento interiore ch’è il segno dell’attraversamento di una soglia di percezione. L’io non si è coniugato con l’altro da sé. L’autore è rimasto con il cerino in mano. Non è un poeta, è un poetante.

Corrado, segreto e  dichiarato discepolo di Tale di Mileto, hai scritto le più belle poesie sull´acqua, il mare, lo stare sotto, una specie di Cousteau della poesia. Parlaci un poco di tale meravigliosa esperienza.
Come ti dicevo, sono nato sulle rive del mare. Per me è difficile capire come qualcuno possa non nuotare, così come non ci passa per la mente che uno non sappia camminare. A diciott’anni ho attraversato a nuoto lo Stretto di Messina. E prima ancora, da ragazzo, sempre in Calabria ho costeggiato per anni a nuoto, estate dopo estate, le spiagge di Riace, senza sospettare minimamente che sotto pochi metri d’acqua – quell’acqua che portavo a me una bracciata dopo l’altra – ci fosse un’altra presenza, sdraiata su un letto di sabbia. Dopo averli cullati per millenni nel suo liquido oblio, il mare ci ha offerto – ha offerto a noi – i guerrieri di bronzo, alzatisi in piedi ai nostri giorni come se soltanto adesso, soltanto per noi prendessero forma dall’inconscio dell’artista. Di chi sono i guerrieri di Riace? Di Fidia, di Lisippo, d’un ignoto scultore? Come il mare, così l’arte, la poesia non sono nostre o di un altro. Una poesia, una composizione musicale, una statua, un quadro non appartengono all’autore più di quanto non appartengano al lettore, all’ascoltatore, al contemplatore che, entrando in sintonia (in sumpaqeia, dicevano i greci), li faccia rivivere dentro di sé. Quando questo avviene, allora si realizza un piccolo miracolo: poeta e lettore, musicista e ascoltatore, pittore e contemplatore sono un tutt’uno per il tratto di tempo in cui sentono allo stesso modo. Lo scultore che, millenni or sono, scolpiva i suoi guerrieri di Riace e noi che per un dono del mare li sfioriamo oggi con gli occhi e con le dita, siamo contemporanei. Beethoven che, quasi due secoli fa, scriveva l’ultima nota su uno spartito e noi che siamo oggi pervasi dalla sua musica, siamo contemporanei. Il contatto è giunto a segno; decodificato, è stato ricodificato e ricomposto: lo schermo interiore s’illumina e noi vediamo.

Come sono i tuoi rapporti con i traduttori e con le poesie tradotte. Pensi pure tu - come certi autori - che la poesia non è che una traduzione ideale di un testo perduto?
Guardo alle traduzioni con grande curiosità; e con grande rispetto. La traduzione delle mie poesie che apprezzo (o, almeno, che sono in grado di gustare) di più è quella in spagnolo; forse per l’assonanza. Le traduzioni in portoghese sono fin adesso poche; ma m’intrigano cadenze e desinenze che mi ricordano il dialetto calabrese (che è derivato in parte dal catalano).
Ebbene sì, penso anch’io che la poesia sia la traduzione di qualcosa d’intravisto. Io è un altro ha detto Arthur Rimbaud, nel senso che il poeta assiste al nascere della poesia. Per non restare impietrito di silenzio nella sua visione inesprimibile, il poeta deve scendere ad un compromesso, dato che deve adoperare la parola, vale a dire un mezzo significante per convenzione. Ecco: a questo livello non troviamo ancora il poeta, ma piuttosto l’interprete, il quale mira solo a coinvolgere, a intrigare, ad abbindolare il lettore per condurlo con sé – come un sonnambulo cui una dea elusiva abbia posto in mano un filo d’Arianna che ha un solo capo – nel labirinto senza uscita nel quale il mistero della poesia si ritrae. Si ritrae sempre più in là quanto più ci si addentra. Se l’affabulazione riesce, l’interprete gode del suo successo. Ma il poeta segreto non può non restare interiormente deluso. Egli non è riuscito a esprimere quello che ha intravisto, ma solo a suscitare artificialmente un’eco deformata di qualcosa, che non è il verbo rivelatore ma semplicemente una sua traduzione infedele, un suo messaggio gestito, un suo simbolo tutto sommato convenzionale. E’ come l’ostia rispetto all’eucarestia: in cui l’entità nascosta, il Verbo, è presente sotto le specie del pane e del vino (generi alimentari usuali quanto le parole…).
(6) La tua stagione poetica, verso dove sta andando a questo punto?
Non programmo mai la poesia. “Il primo verso è sempre un dono degli dei” ha scritto Paul Valéry (ch’eppure non era un romantico). Il poeta scrive perché non può tacere quello che non sa di dover dire. E’ proteso a un superamento ulteriore, a una scommessa che si rinnova. E’ questo il suo tormento: voglia di scrivere, incapacità di scrivere, desiderio di scrivere diversamente, incapacità di scrivere diversamente.
Il che non vuol dire che non si eserciti, così come un calciatore si allena, fa preparazione fisica, palleggia, in attesa di giocare la sua partita. Ma ho imparato che il lungo lavoro di sperimentazione, di esercizio, ci serve semplicemente per essere pronti in quell’attimo, in quella fase che è stata definita d’avantesto, cioè la fase di gestazione del testo, in cui ci troviamo in uno stato d’attesa, d’incubazione di qualcosa che preme oscuramente a livello subliminale; preme per prendere forma. La poesia resta sospesa tra l’inveramento della promessa e la negazione definitiva.
L’intervallo tra quando un dio ci ha visitati ed è andato via a un altro deve ancora venire può essere lungo, molto lungo. Il poeta, anche il grande poeta, nasce e muore ogni volta con la sua creazione, come l’agave, e ogni volta lo fa con l’innocenza di una nuova nascita. Nessuno può dire se e quando scriverà di nuovo una vera poesia. Parafrasando Jules Renard possiamo dire che nella casa della poesia la stanza più grande è la sala d’attesa.

 


Voltar para última edição

Mosaico Italiano #8

Giuseppe Ungaretti (Traduzione di Sonia Gibelli)

Polenta o osei all'Hotel Paradiso di Simla in Kashmir (Franco Vicenzotti)

Eugenio Montale: una voce di là dal muretto (Francesca Barraco Torrico)

Migrazioni e trauma (Andrea Lombardi)

Il dialetto nei romanzi di Andrea Camilleri (Giuseppe Petraglia)

Andrea Camilleri, un caso di fedeltà quasi impossibile (Giuseppe D'Angelo/Maria Helena Kühner)

Corrado Calabrò: Il Primo Verso è un Dono degli Dei (Marco Lucchesi)

Quei popoli "paurosi" che pensano solo al benessere (Francesco Alberoni)