Eugenio Montale: una voce di là dal muretto

Francesca Barraco Torrico

Dedico questo articolo ad un grande uomo che ho conosciuto tanti anni fa. Studiavo ancora alla facoltà di Lettere a Torino quando un giorno il professore di letteratura italiana, Ettore Bonora, ci fece la grande sorpresa di entrare in aula accompagnato nientemeno che da Eugenio Montale! E quel giorno la lezione ce la fece lui, il grande poeta. Posso quindi dire con orgoglio di essere stata una sua allieva, anche se solo per poche ore!
Che cosa si può dire della poesia di Eugenio Montale che non sia già stato detto? Che forse è la testimonianza più drammatica della crisi spirituale moderna, di un mondo che sembra andare in frantumi e in cui pare non ci sia più alcuna ragione valida per vivere.
La sua poesia ha preso il colore e l’aspro dei suoni proprio dagli aspetti della sua regione, dalle pendici ripide della Liguria, dai campicelli a picco sul mare, dove la terra è circondata da muretti. Il mare, di fronte a questi pendii che minacciano sempre di franare, è una specie di mito, ma il mare, metafora dell’adolescenza perduta, è per gli altri, non per il poeta. C’è un altro mito, però, in Montale che rappresenta il centro della sua poesia, molto più del mare, ed è l’ora del meriggio. 2
Ossi di seppia, la prima raccolta di poesie di Eugenio Montale, che comprende Meriggiare (di cui presento un’analisi testuale), venne pubblicata per la prima volta nel ‘25 quando il poeta aveva solo 29 anni.
Nel libro la scelta di Montale cade su piccole cose, sugli elementi di una realtà povera e comune che l’uomo può trovare intorno a sè in qualsiasi momento. Gli oggetti, le immagini e le voci della natura diventano per lui dei simboli in cui è scritto il destino dell’uomo.
Gli Ossi di seppia (titolo che allude a cose diverse: gli ossi di seppia come gusci vuoti che il mare riporta a riva; come oggetti da incastrare nelle voliere perchè gli uccelli vi affilino il becco) simboleggiano l’aridità dell’universo montaliano. Essi alludono anche al carattere volutamente povero dell’ispirazione che appare per lo più concentrata su brevi momenti dell’esistenza, circoscritta nelle linee del paesaggio ligure, compreso tra il mare e le colline.
Disarmonia, angoscia, male di vivere, la coscienza della sconfitta dell’uomo: questi sono i temi essenziali e veramente significativi degli Ossi di seppia.
Le forme concise ed aspre, correlativi formali del disagio del poeta, spesso derivano dall’esperienza petrosa di Dante: “Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale / siccome i ciottoli che tu volvi”, “Volli cercare il male / che tarla il mondo, la piccola stortura / d’una leva che arresta / l’ordegno universale” (Mediterraneo), “ascoltare tra i pruni e gli sterpi / schiocchi di merli, frusci di serpi / (Meriggiare), “Arremba su la strinata proda /…
I famosi versi iniziali di Meriggiare sono già portatori di alcuni segni-simboli fondamentali del libro, come l’ora meridiana, il muro, l’orto.

Meriggiare pallido e assorto

1 Meriggiare pallido e assorto 2 presso un rovente muro d’orto 3 ascoltare tra i pruni e gli sterpi 4 schiocchi di merli, frusci di serpi 5 Nelle crepe del suolo o su la veccia 6 spiar le file di rosse formiche
7 ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
8 a sommo di minuscole biche 9 Osservare fra frondi il palpitare 10 lontano di scaglie di mare 11 mentre si levano tremuli schricchi
12 di cicale daí calvi picchi 13 E andando nel sole che abbaglia
14 sentire con triste meraviglia
15 com’è tutta la vita e il suo travaglio
16 in questo seguitare una muraglia
17 che ha in cima cozzi aguzzi di bottiglia
(E. Montale, Ossi di seppia, 1925)

Nella poesia, che presenta un momento di sospensione quasi assoluta, in cui la vita sembra essersi fermata, in un colloquio muto fra l’uomo e le cose, è possibile cogliere echi dell’influsso di D’Annunzio (versi 9 e 10, l’arcaismo morfologico frondi:fronde, si può ricondurre a L’onda, in Alcyone o alla Pioggia nel pineto: v. 38, / secondo le fronde /, v. 81, / or s’ode su tutta la fronda /, v. 86, / secondo la fronda.
Il motivo dell’orto è presente in Novembre di Pascoli (da Myricae), v. 10 / odi lontano, da giardini ed orti /; in Digitale Purpurea di Pascoli (dai Primi Poemetti ), vv. 11-12, “E dì, non lo ricordi / quell’orto chiuso?/…, vv. 42-43, “quante fanciulle sono / nell’orto, bianco qua e là /; in Nebbia di Pascoli (dai Canti di Castelvecchio), vv. 9-10, / ch’io veda soltanto la siepe dell’orto /, v.29 / qui, solo quest’orto…/ .
Il tema del muro, che rappresenta il segno del passaggio, il punto di accesso a qualcosa di diverso dalla solita vita, oltre che in questa poesia, (“un rovente muro d’orto”), lo troviamo in altri componimenti di Montale, come ad esempio: Non chiederci la parola, vv. 7-8, “e l’ombra sua non cura che la canicola / stampa sopra uno scalcinato muro!/; in Gloria del disteso mezzogiorno, in cui l’ora meridiana si fonde con il muro nel verso 7, “l’ora più bella è di là dal muretto / (si intravvede la speranza di giungere alla felicità al di là del muro); nel v. 11, “la buona pioggia è di là dallo squallore / ma in attendere è gioia più compita (da questa parte del muro c’è squallore, noia, di là c’è la gioia resa più bella dall’attesa); da questa parte del muro osserva la vita che si frantuma, nei vv. 7-8 di Non rifugiarti nell’ombra, “e di guardare le forme / della vita che si sgretola /; al di là c’è la sicurezza, la serenità, nei vv. 23-24, “si perdono nel sereno / di una certezza: la luce /; poi ritorna la rassegnazione (o speranza?) in Sul muro grafito, vv. 9-10, “rivedrò domani le banchine / e la muraglia e l’usata strada /.
Il motivo del meriggio lo ritroviamo sempre in D’Annunzio (Meriggio), vv. 69-70-71, “E sento che il mio volto / s’indora dell’oro / meridiano; vv.105-106 / ma il mio nome è Meriggio. In tutto io vivo /. Lo troviamo ancora in Montale (Spesso il male di vivere ho incontrato), vv. 7-8, / era la statua nella sonnolenza / del meriggio; in Non rifugiarti nell’ombra, v. 14, / che impigra in quest’ora di disagio (disagio che è calura, arsura).
L’uso del verbo all’infinito, su cui si regge la struttura del componimento, (meriggiare, ascoltare, spiar, osservare, palpitare, sentire, seguitare) accentua il senso di una continuità e di una durata uniformi e toglie al tema qualsiasi riferimento troppo individuale, soggettivo. A questo si sovrappone un intenso gioco di allitterazioni, quasi per rendere, attraverso la sonorità verbale, il “palpitare”della natura e delle sue voci.
La sequenza dei termini in rima della prima quartina (“assorto” / “orto” / ”sterpi” / “serpi”) si ripercuote sull’intero componimento, nelle svariate combinazioni della liquida r con altre consonanti (ad esempio “presso”, “tra i pruni”, “merli”, “frusci”, “crepi”, intrecciano”, “frondi”, “mentre”, “tremuli”, “triste”, “travaglio”).
La vivacità sonora di “scricchi” (preceduto da “tremuli” al v. 11), anticipata dagli “schiocchi” del v. 4, conduce alla rima, attraverso la ripetizione di c, con il v. 12: “di cicale dai calvi picchi”. Particolarmente insistenti, infine, sono gli effetti combinati di rima e di consonanza dell’ultima strofa, nella serie “abbaglia” / “meraviglia” / “travaglio” / “muraglia”/ “bottiglia”.
Lorenzo Renzi, a proposito di critica su Montale, scrive:

“La poesia di Montale si presenta a prima vista come un enigma, qualcosa che nasconde un senso. L’interpretazione critica consiste naturalmente in una spiegazione. La spiegazione nel mettere in relazione i singoli pezzi della poesia. Tutto deve essere spiegato.3
Ai critici di Montale si presenta dunque il compito di capire e di far capire ai lettori. Una volta i critici per vedere se avevano capito bene, telefonavano a Montale e il poeta qualche volta precisava. Spesso era lo stesso Montale che preparava le note esplicative che collocava nei libri in fondo alle poesie”.4

Il critico e poeta Sergio Solmi comprese immediatamente la grandezza della poesia di Montale e fu il primo a segnalare la diversità di stile e di ispirazione di Montale rispetto ai poeti suoi contemporanei, sostenendo come egli avesse poco da spartire con loro. Diceva che la poesia di Montale nasceva già con il suo “motivo individuale”, motivo che le dava un tono intimo e necessario che invano cercheremmo altrove.
Alfredo Gargiulo nella prefazione che scrisse per Ossi di seppia, edizione 1928, disse che gli Ossi davano l’impressione di “pietrosità”, impressione che fu considerata a lungo carattere preminente del primo Montale e che influenzò, dando luogo a qualche equivoco, la critica che si occupò della poesia di Eugenio Montale.
Angelo Jacomuzzi nota che nel primo Montale gli oggetti della poesia sono chiari, ma è ambiguo il “messaggio”; nel secondo Montale si fanno oscuri i riferimenti intorno agli oggetti, mentre si fanno più chiari i significati.5
Gianfranco Contini infine: “Il discorso di Montale è un discorso di tono e timbro “familiare” (“Ascoltami, i poeti laureati / si muovono soltanto fra le piante / dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti. / Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi / fossi dove in pozzanghere / …, il quale si presuppone per lo più, ben vicino, un interlocutore” […].6

1 MONTALE, Eugenio, Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Oscar Mondadori, 1984, pag. 31;
2 CONTINI, Gianfranco, Una lunga fedeltà - Scritti su Eugenio Montale, Torino, Einaudi, 1974-2002, pag. 12;
3 RENZI, Lorenzo, Come leggere la poesia, Bologna, Il Mulino, 1991, pag. 99;
4 Cfr. ivi
5 JACOMUZZI, Angelo, Sulla poesia di Montale, Bologna, Cappelli, 1968, pagg. 56-60;
6 CONTINI, op. cit., pp. 6-7.

 


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