Mario Praz: Lo sguardo ell'innominato e l'estetizzazione dello spazio

Ettore Finazzi

Presentare l’opera di un amico è sempre un compito arduo, esposto al duplice rischio dell’eccessiva contiguità e dimestichezza con l’autore ovvero dell’artificioso distanziamento da esso, dalle sue ragioni e dai suoi meriti. In entrambi i casi, insomma, si può incorrere in errori prospettici, si può, cioè, cedere ad una presbiopia o, per converso, ad una miopia interpretativa che offuscherebbero fatalmente, in entrambi i casi, la chiarezza di lettura.

Perciò, anche se Flora è una cara amica (con cui stiamo, peraltro, tentando di avviare un progetto di ricerca congiunto, con colleghi di altre università italiane e brasiliane), mi proverò tuttavia a leggere il suo libro da una giusta distanza, cercando di evitare sia la piaggeria che l’innaturale polemismo e il non sentito dispetto. E del resto, l’esegesi dell’opera praziana intrapresa in questo testo, invoglia soprattutto a volgere l’attenzione sull’oggetto descritto, più che sul soggetto scrivente. Ciò che voglio dire, è che l’ingombrante personalità (anche biografica) del saggista e scrittore romano riempie di sé lo spazio testuale, talché l’autrice sembra giustamente volersi mettere al servizio del suo pluriculturalismo — come lo definisce Asor Rosa nella sua introduzione —, sembra volerlo spiare nel suo andirivieni tra le più diverse metodologie ermeneutiche per arrivare a dar conto di quella “irreprensibilità” (in senso etimologico: nel senso, cioè, di quello che non può esser ripreso o che può solo esser preso “altrimenti”) che è tipica della inafferrabile scrittura praziana.
L’innominabilità dello studioso, che come tutti sanno gode ancor’oggi di una radicata e ampia tradizione negli ambienti accademici italiani, diviene, in questo senso, la cifra scaramantica che dà accesso ad un’interpretazione eventuale: l’innominato, cioè, — o meglio, il non-nominabile, cui rinvia il sottotitolo portoghese — diviene l’anonimo che vive fino in fondo, non tanto la mancanza o la tabuizzazione del nome, quanto l’assenza di norme che all’anonimato si connette e che lo consegna ad una salutare anomia, desituandolo rispetto ad ogni doxa, ad ogni luogo critico consacrato. Già Simone Weil scriveva, in effetti, che stare “nell’assenza di luogo” consente di “afferrare, come tutti i santi, ciò che è la lunghezza, la larghezza, l’altezza e la profondità” (Quaderni, vol. II): essere desituati e anomici, insomma, permette di afferrare in un sol colpo lo spazio nella pluralità delle sue dimensioni e delle sue manifestazioni. Non è un caso, in questo senso, che la chiave di lettura adottata da Flora per leggere l’opera di Praz sia, appunto, la sua concezione estetica e testuale dello spazio: che è come dire che la sua innominabilità, che ci osserva dalle pieghe dei suoi libri, può essere a sua volta funzione di uno sguardo diverso, di una più acuta percezione della spazialità, in tutte le sue articolazioni.
La capacità dello studioso romano di sfuggire ad ogni determinazione specialistica o “di scuola”, la sua propensione a ignorare qualunque delimitazione ideologica o semplicemente “di stile”, sarebbe, allora, ciò che gli consente d’altra parte una salutare trasversalità, divenendo sapere profondo dei luoghi, della loro ragion d’essere, della loro logica e della loro necessità che si sovrappone all’apparente incongruenza del loro manifestarsi. Credo sia esemplare, in questo senso (ma qui, ovviamente, parla il brasilianista, che usa appena le lenti di cui dispone) — mi pare, dicevo, esemplare la lettura fatta da Praz della città di Rio de Janeiro, vista dall’alto del Corcovado e sintetizzata nella sua caratteristica contraddittorietà in Il mondo che ho visto (1982): “Favelas, tombe, macchine da abitare: tre aspetti di vita e di morte” (216) [è curiosa, sia detto di sfuggita, la scelta dell’espressione “macchine da abitare”, che l’autore italiano riprende, ovviamente, da Le Corbusier, ma nella quale sembra ancora echeggiare la visione della città di Macunaíma, l’eroe senza nessun carattere inventato dal modernista brasiliano Mário de Andrade, che, nella San Paolo degli anni 20, pone anch’egli tutto sotto il segno della Macchina]. Dunque, Rio come intersecarsi di “favelas, tombe, macchine da abitare: tre aspetti di vita e di morte”: frase che ben mostra la singolare predisposizione alla sinestesia di Praz, quel suo sospendersi tra l’eccezione e l’abitudine, che gli consente, anche altrove, di fare collegamenti inattesi (come quello tra Petrópolis e Brasília, viste nella loro antitetica similitudine), ovvero di cogliere quell’aspetto tipico delle città brasiliane che è la loro assenza di un centro — anche se è curioso, ma anche caratteristico, che egli non voglia andare al di là della constatazione, non voglia, cioè, analizzare le ragioni che motivano tale differenza tra Vecchio e Nuovo Mondo e che la struttura urbana, in qualche modo, evidenzia e rende “logica”. Ed è altresì inatteso, date le sue predilezioni estetiche, il suo spregio per il caratteristico stile liberty di molti edifici di Rio, accomunati nella categoria del kitsch (220-21) e dalla cui decadenza promana “il miasma della vegetazione in decomposizione”: ma, forse, da un autore così profondamente segnato dal décor delle città e delle case europee sarebbe stato difficile pretendere una diversa e più articolata valutazione del tempo americano e del suo rapporto con la storia che anche nell’art déco carioca si deposita e si manifesta. In ciò, del resto, egli appare in buona compagnia, visto che le considerazioni di un antropologo della levatura di Claude Lévi-Strauss a proposito delle città brasiliane suonano molto simili alle conclusioni di Mario Praz — mi riferisco ovviamente alla famosa notazione, che troviamo in Tristi tropici, circa il passaggio dal nuovo al decrepito, senza conoscere la maturità, che caratterizzerebbe le metropoli tropicali.
Ciò nonostante, allo studioso italiano, dalla sua posizione di osservatore dall’alto — sempre sopra le cose, sempre desituato e anomico —, dobbiamo anche alcune pagine bellissime su Rio de Janeiro, come la sua visione notturna dal Pan di Zucchero citata da Flora (217). Pagine, queste, che ci confermano la sua capacità di “leggere lo spazio” (quello interno come quello esterno, legati nella loro effettiva possibilità di essere “messi a testo”) da una condizione che è, insieme, partecipante e distaccata, etica ed estetica, ma comunque programmaticamente fuori le righe, fuori dai luoghi comuni critici — e che rende Praz un interprete ossessivamente attento ai dettagli (alla trama del reale) e, al tempo stesso, propenso ai collegamenti inattesi (alla trasversalità delle istanze e alla ambivalenza e ampiezza delle “figure” di realtà).
Di fatto, molto si è discusso del suo dandismo e credo che questa sia una modalità interpretativa ancora da praticare — forse, per Flora, anche nella direzione da lei stessa suggerita e riconfermata, poi, nella postfazione di Luiz Edmundo Bouças Coutinho, ossia nell’accostamento probabilmente molto produttivo tra Mario Praz e Alexandre Eulálio. Spero, insomma, che il far luce sulla personalità “rimossa” dello studioso italiano consenta non tanto di dargli finalmente un nome, quanto di reperire, proprio nella sua anomia, proprio nella sua anomalia e nel suo anonimato, un “modello” critico che, in qualche misura, ha fatto scuola, che ha tracciato inconsape-volmente una strada su cui altri, con movenze irregolari pari alle sue, si sono avviati, volgendo sulla realtà lo stesso sguardo obliquo, passionale e disincantato, dell’Innominabile.

Prefazione scritta da Alberto Asor Rosa

Il saggio critico di Flora de Paoli Faria parte da una costatazione, che mi sembra ineccepibile e mi ha fatto pensare: l’opera di M.P. ha avuto in Italia una fortuna molto minore di quanto meritasse. Questa sordità della cultura letteraria italiana nei confronti di un autore come P., ricco di molteplici suggestioni e indicazioni, si deve innanzi tutto, come la stessa de Paoli Faria osserva, alla lunga egemonia in Italia della tendenza idealistico-crociana, al cui formalismo estetico (che è in sostanza una forma di classicismo: si pensi al forte privilegiamento da parte di B. Croce di un poeta come Giosue Carducci e alla sconfessione del decadentismo e di Gabriele d’Annunzio solo per restare all’area strettamente italiana) doveva risultare del tutto estraneo, e condannabile, l”eclettismo” curioso e geniale dell’allora giovane anglista. Ma, più tardi, tale estraneità e tale insofferenza sono state ereditate, sia pure per motivi molto diversi, sia dalle correnti d’orientamento marxista, cui appariva incomprensibile e negativa l’assoluta mancanza di “impegno” politico e civile da parte di P., sia dalle correnti semiologiche e strutturalistiche molto forti in Italia a partire dagli anni ’60, che dovevano vedere P. come un autore inassimilabile ad una concezione sostanzialmente scientista e analitica della critica letteraria.
Trovo che il saggio critico di Flora de Paoli Faria sia contraddistinto da numerosi meriti e aspetti positivi. Innanzi tutto esso, come già accennato, si muove “contro” le tendenze più consolidate del sapere letterario italiano contemporaneo: corregge dall’esterno, con operazione non priva di coraggio intellettuale, una nostra “ingiustizia” letteraria, colma una lacuna, che riguarda un po’ noi tutti, se si esclude (ma solo in parte) la piccola pattuglia dei suoi allievi universitari (di cui la de Paoli Faria fa bene a introdurre nel suo testo le vivaci e significative testimonianze). Ma poi è la sostanza del discorso critico della de Paoli Faria a interessare, aprendo una serie di problemi, che varrebbe la pena di approfondire molto di più di quanto io non sia in grado di fare in questa breve nota. A me pare che i “punti focali” più importanti del suo ragionamento siano questi.
La de Paoli Faria coglie benissimo il fatto che la caratteristica più importante e forse più singolare, - più “distintiva”, vorrei dire, - del discorso critico di M.P. consiste nell’assoluta eterogeneità dei suoi oggetti (case, città, mobili, dipinti, persone, “biografie”, autori, libri, ecc.ecc.), ognuno dei quali, tuttavia, rimanda a tutti gli altri, in una catena inesauribile di “associazioni” mentali, che però non sono puramente immaginarie, perché si fondano sulla più ricca e articolata delle culture personali, in cui le tradizioni più diverse, - libresca, figurativa, filosofica, antiquaria, ecc., - continuamente si toccano e si fondono.
Questa tavolozza inesauribile di colori e di paste potrebbe essere definita secondo me, più che eclettismo, “pluriculturalismo”, perché la molteplicità dei riferimenti viene poi organizzata con grandissimo rigore intorno ad alcune coordinate del gusto, che vanno, seguendo percorsi interni di grande complessità e ricchezza, dal culto di un certo neoclassico (stile Impero) alla precisa percezione di alcune delle coordinate fondamentali dell’esperienza romantica europea (La carne, la morte e il diavolo …), fino alla rivalutazione estremamente precoce di aspetti decisivi del gusto artistico tra Ottocento e primo Novecento (liberty e decadentismo). In questa operazione storico-critica rifulgono ancora, oltre che le componenti del gusto, anche quelle di carattere squisitamente filologico e documentario: non c’è affermazione di M.P. che non sia sostenuta da una puntigliosa ricostruzione dei dati di fatto (testuali, storici), che le stanno dietro e la giustificano.
La descrizione che Flora de Paoli Faria compie dei vari aspetti della cultura praziana ruota, - come accade in tutte le operazioni intelligenti di questa natura, - intorno a un’ “idea critica” centrale che illumina tutta l’analisi e le dà quell’organicità e coerenza da cui è contraddistinta. Questa “idea critica” consiste nell’aver individuato nella categoria dello “spazio” la categoria unificante della curiosa e mobile cultura praziana. Spazio della casa; spazio della città e del mondo; spazio del testo. Mi pare che si tratti di un’intuizione di prim’ordine, perché fa riferimento, più che a un metodo, ad una vera e propria mentalità, ad una forma della percezione (fondamentalmente visiva, anche quando si tratti di testi scritti, letterari), ad un atteggiamento del gusto. Forse ci voleva una studiosa abituata a fare i conti con le grandi spazialità della cultura e dell’ambiente brasiliani, per scoprire una chiave di lettura così originale a proposito di un autore che, per altri versi, è così tipico del Vecchio Mondo. Penso che si tratti di un’intuizione degna di essere approfondita e sviluppata, sia che si tratti di procedere ad una ricognizione anche più sistematica dell’opera di M.P., sia che si intenda procedere, come mi pare di capire, ad indagini successive sulle ramificazioni di tale opera nella cultura del Nuovo Mondo.

 


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