Il capitalismo? È alle corde perché ha perso la base etica

Francesco Alberoni

In questi ultimi tempi siamo stati tutti colpiti dai processi speculativi che hanno travolto la new economy. E turbati dal comportamento di molti manager che, anziché curare il successo dell’impresa e fare buoni prodotti per i consumatori, hanno usato il proprio potere per arricchirsi personalmente, arrivando a falsificare i bilanci. Mai come questa volta la crisi economica nasce dalla mancanza di quella moralità che ha consentito al capitalismo di crescere, al mercato di funzionare.
Il capitalismo infatti è possibile solo su una rigorosa base etica. Dovremmo saperlo bene noi italiani, perché le istituzioni capitalistiche e il mercato sono nati proprio nel nostro Paese, a Venezia, a Milano, a Firenze e non sarebbero prosperate se le corporazioni non avessero imposto regole rigorose, e la Chiesa non avesse elaborato e insegnato una solida morale economica. Ce lo ricorda uno studioso di San Tommaso, Paolo Del Debbio, nel suo libro Global.
La morale cristiana medioevale indica con precisione come far funzionare la concorrenza e il mercato: non agire in modo fraudolento, non fare patti segreti, mantenere la parola data, non cambiare le regole del gioco, garantire, sotto il controllo delle corporazioni, la qualità e il prezzo giusto al consumatore.
Nel 1500 Leon Battista Alberti descriveva, due secoli prima di Benjamin Franklin, i fondamenti etici della personalità dell’imprenditore: vigilanza, correttezza, rigore. E regole non molto diverse possono essere trovate nel Talmud. È grazie ad esse che le comunità ebraiche hanno saputo svolgere la loro importante funzione economica.
Su questa tradizione si sono abbattute due bufere. La prima è stata il marxismo. Per il marxismo non c’è differenza fra imprenditore, finanziere, speculatore e imbroglione. Tutto è sfruttamento, tutto è male. Non c’è una morale economica, ma solo una morale politica. È bene solo quello che serve alla mia parte politica.
Queste idee, nei Paesi comunisti, hanno distrutto totalmente il substrato morale del mercato. Con il risultato che oggi, nel momento in cui vorrebbero mettere in moto l’imprenditorialità e la concorrenza, si trovano di fronte a disonestà, corruzione e mafia.
La seconda forza che si è abbattuta sulla tradizione morale dell’Occidente è il relativismo culturale. Che non si limita a dire che tutte le culture hanno uguale dignità. Ma che non esiste nessun principio morale universale, che una civiltà non deve avere un corpo comune di valori e di costumi. Che a scuola non si deve insegnare il comportamento morale perché è prevaricare la spontaneità e la libertà istintuale.
Adam Smith, accanto al suo testo fondamen-tale di economia, ha scritto il Trattato sui sentimenti morali. Ma oggi nelle scuole di economia non si insegna il comportamento morale, non si plasma la personalità morale. Nelle imprese e nelle istituzioni vengono tollerati comportamenti che, in un’altra epoca, avrebbero comportato l’espulsione dalla comunità. Il consumatore è raggirato con l’obsolescenza programmata dei prodotti, l’azionista derubato dalle manovre degli amministratori. Fra i giovani aspiranti manager si è diffusa una mentalità avida e cinica.
Conclusione? Bisogna tornare a solidi principi. Non bastano le sponsorizzazioni delle attività non profit o umanitarie a salvarci. È nella vita concreta, nei comportamenti di ogni giorno che dobbiamo scegliere il bene e condannare il male. E compiere una ricostruzione morale dal basso, dai primi anni dell’infanzia, dai banchi della scuola, fino all’università.

 


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