Fulvio Tomizza
scrittore di frontiera

Afrodita Carmen Cionchin


Nell’ambito della letteratura italiana del Novecento, la letteratura triestina si distingue per la problematica che questa zona ispira soprattutto sul piano del suo statuto di «frontiera».
Il concetto di frontiera, con riferimento a Trieste, fu elaborato all’inizio del Novecento da intellettuali come Piero Gobetti, Gaetano Salvemini, Scipio Slataper, per poi essere continuamente messo in discussione, nei suoi vari aspetti, dagli scrittori e uomini di cultura appartenenti non solo a questo spazio, tra i quali si distinguono Giuseppe Ungaretti, Elias Canetti, Milan Kundera, fino a Claudio Magris, Fulvio Tomizza o Angelo Ara.
Sul piano storico-politico e geografico, la frontiera triestina rappresenta e soprattutto rappresentava essenzialmente la frontiera con l’Est, con quell’«altra» Europa e tutto ciò che deriva da tale statuto, mentre sul piano psicologico e spirituale, essa ha un significato ambivalente che accomuna il positivo ed il negativo in un complesso non privo di forti tensioni: “La frontiera è duplice, ambigua – rileva Claudio Magris; talora è un ponte per incontrare l’altro, talora una barriera per respingerlo. Spesso è l’ossessione di situare qualcuno o qualcosa dall’altra parte» .
In questa sequenza letteraria faremo riferimento a Fulvio Tomizza, la cui vita si costituisce in un vero e proprio «destino di frontiera», onde la qualifica che gli venne attribuita – «scrittore di frontiera». Nella sua visione, frontiera reale, frontiera “per antonomasia”, è quel territorio tanto conteso che alla sommità dell’Adriatico si insinua tra Italia, Austria e Jugoslavia, “nel quale si radicano il mio destino di uomo e la mia ricerca di narratore» .
Il concetto di “letteratura di frontiera” va collegato a quello di “letteratura dell’esilio», definibile quale opera di scrittori istriani, liburnici, dalmati, trapiantatisi a Trieste in parte già in tempi ormai lontani, in parte nel secondo dopoguerra, dopo che i loro paesi d’origine erano stati assegnati alla sovranità o all’amministrazione jugoslava. Una letteratura giustamente caratterizzata dalla vocazione della memoria e della confessione, vocazione manifestata sia al livello teorico, sia nelle varie forme del “testo soggettivo”, dal diario intimo all’autobiografia, memorie, corrispondenza e romanzo autobiografico. Anche in questa direzione di ricerca ci affidiamo allo stesso Tomizza, prendendo in considerazione la sua predilezione per la testimonianza diretta. Nato a Materada d’Umago in Istria e poi diventato triestino di adozione, cosicché “la mia terra non è più solo l’Istria: lo è diventata anche Trieste” , lo scrittore non esita ad affermare: “Non mi sono mai identificato bene né con l’Italia né con la Jugoslavia. Io ho sangue slavo, mentre la mia educazione è tutta italiana” .
In tale contesto si spiega la sua scelta sul piano dell’identità individuale ed artistica:
“C’è stata una scelta, che però era una scelta d’obbligo. Io sono e resto italiano di lingua, nato in un’Istria mistilingue sul piano dialettale. Se ho scelto di diventare scrittore non potevo che scegliere di diventare scrittore italiano, non potendomi, però, confondere né con scrittori di altre regioni italiane, né con persone dell’Istria costiera. Questi ultimi erano totalmente italiani” .
Le ragioni di tale scelta sono ancor più complesse, come continua a evidenziare l’autore:
“Ma c’è qualcosa di ancor più forte del richiamo della lingua. Dopo il Memorandum del ’54, la maggioranza decise di andare verso l’ignoto, verso un mondo ritenuto civile, di ordine, di tradizione, mentre il regime jugoslavo di allora aveva una forte impronta stalinista ed aveva portato il caos e il terrore, e una specie di snaturamento. Io, vedendo ciò, li ho seguiti: seguire la mia gente a costo di lasciare la terra poiché era questa gente che se la portava dentro, anche mirando a un riscatto morale” .
Approfondendo l’argomento, lo scrittore confessa che “di fronte alle scene di gente indecisa che prendeva le suppellettili (non voleva staccarsi nemmeno da un mobilio magari squallido pur di portarsi via qualcosa di familiare) e che lasciava i morti, lasciava le case, lasciava i campi che da sempre aveva lavorato, io avevo annotato degli episodi che mi avevano particolarmente colpito e mi avevano anche straziato. Per cui, passato anch’io a Trieste nell’ottobre del ’55, mi misi a tavolino” .
In un’altra parte si può ritrovare una simile descrizione:
“Fui partecipe di un avvenimento che non definirei neanche tragico, quanto estremamente toccante, il quale denudava un’umanità come colpita a tradimento. Questa gente era costretta a scegliere, ma non poteva né rimanere nella terra di sempre tanto cambiata dalle vicissitudini storiche – violenze, imposizioni, proibizioni – né vivere fuori dalla comunità, dalle tradizioni, dalle feste, dall’ingrato eppur familiare lavoro, essendo come vincolata al ciclo stagionale delle semine e dei raccolti. Era gente che non si sarebbe neanche potuta esprimere fuori dal proprio ambiente. Tuttavia quasi il settanta per cento di questa popolazione preferì oltrepassare il confine, andare a Trieste, in Italia. Passando di là sapevano e non sapevano di finire nei campi di raccolta per profughi, di venire strumentalizzati, di contare unicamente come persone che avevano detto no al comunismo, portando il contributo dei loro voti al partito di maggioranza. Furono una primavera e un’estate di grande strazio. La gente doveva cambiare completamente vita, attaccata alla terra com’era. Lasciavano tutto e c’era la psicosi della fuga” .
Non è perciò un caso che Tomizza ha ambientato il suo primo romanzo, Materada (1960), in questo lacerante scenario storico. È, quindi, un romanzo dell’esodo e della frontiera, un’intensa saga che acquisisce alla coscienza letteraria italiana il mondo dell’Istria croata e insieme rappresenta epicamente il dramma dell’Istria italiana.
Allo stesso tempo, Materada è il libro di uno scrittore che non si identifica appieno né in un mondo né nell’altro e trova in quest’inappartenenza, come sottolineano anche i romanzi successivi della sua epica istriana, la sua identità. Idea sostenuta da Tomizza stesso quando ammetteva che “prima parlo a nome di un piccolo popolo, dopo faccio un’indagine interiore e scopro queste stimmate, tormenti di un uomo che cerca la sua identità” .
Riguardo al concetto d’identità, qui si avrebbe a che fare con la cosiddetta “doppia identità”, la quale è un effetto dell’emigrazione e dell’immigrazione. In questa prospettiva, la doppia identità si rivela quale incapacità di scegliere tra il ricordo del passato e l’ansia del presente. È, perciò, una fonte di forte conflitto interiore.
In Materada, lo scrittore presenta con accenti drammatici uno stato di “crisi”, soprattutto d’identità, attraverso una “poesia dolorosa della terra”, come fu chiamata dalla critica:
““La promessa c’è. Ma è duro lasciare la terra sulla quale ti sono venuti i capelli bianchi, e la tua casa, e la tua gente. Tu lasceresti la tua campagna, Franz, di cui conosci ogni solco, ogni erba, ogni zolla?”
Dallo stomaco mi venne su una vampata calda.
“Io non lascio niente” dissi. “E penso che come me faranno anche gli altri”“ .
I segni della crisi, individuale e collettiva, diventano sempre più accentuati, fino a raggiungere il punto estremo, il culmine:
“Arrivai fino a loro e ci guardammo. “Allora è andata?” chiese Berto.
“È andata.”
Ci fu silenzio, un buon silenzio. Poi mia moglie scoppiò a piangere e appoggiò il viso sulla spalla della cognata. Mio zio chiuse gli scuri, e lei si voltò verso l’alto e in viso non era più lei. Non so se malediva verso lui o verso Dio. In una rabbia, in una lite, in un pianto, si raggiunge un punto che è il culmine, e si fa, per così dire, un salto al di là dello stato normale, dove non esistono più né padre né madre, né marito né figli, ma solo odore di sale e mal di testa e lagrime ingrandite e luccicanti come stelle. Così accadeva ora a mia moglie. Gridava con tutta la sua voce e sventolava i pugni, rossa nel viso, mentre Maria cercava di trattenerla. “Vigliacco, farabutto! È tutta colpa vostra se a noi ora ci tocca andare come disgraziati per il mondo. Ladro, ladro! Ci avete preso il nostro! Ai vostri nipoti, al vostro stesso sangue. Con che coscienza potete guardare ora gli uomini in faccia? Ma è finita anche per voi, sapete?! Mangiatevi la terra, ora, e che poi possiate marcire sotto due pietre! Mangiatevela, mangiatevela, che aspettate? e che poi vi possa venir fuori per gli occhi e per le orecchie, per poi scoppiare come un verme! Ladro, mai una parola bella, solo ordini e ordini e imbrogli e brutte maniere, da quando sono venuta su questo Monte maledetto!”
E alle sue parole anche mia cognata si era riscaldata e l’aveva lasciata libera e adesso gridava anche lei. E subito dopo anche Berto e mio figlio. E tutti e quattro gridavano e piangevano, e Berto bestemmiava Iddio e la Madonna” .
Il finale del romanzo ricrea, simbolicamente, la stessa immagine sconvolgente della terra avita, depositaria della storia di una comunità che sta per dissolversi:
“Guardavo le tombe, e con tutta quell’erba parevano cumuli di terra sollevatisi sotto la schiena di grosse talpe. E pensavo ai nostri morti dalle orecchie e le nari piene di basilico; pensavo a tanta altra gente che era nata e cresciuta e poi finita là con un rosario e un libro nero tra le mani, e di cui ora non restava che ossa e ossa, le une sulle altre, e libri e rosari sparsi tra la terra. Mezzo ettaro di quella terra senza pietre era bastata per tutti; poteva bastare anche per noi e i nostri figli.
“Addio ai nostri morti” disse forte una donna” .
I vari aspetti attinenti agli uomini da soli e agli uomini come gruppi, aspetti presi in discussione quali pezzi costitutivi della grande verità della frontiera e dell’esilio, vengono a rafforzare l’idea che il cammino dall’identità alla doppia identità passa per forza attraverso la perdita di sé, tra radicamento e lontananza, appartenenza ed estraneità, sicurezza e incertezza, che da “a casa” a “da quella parte” c’è tutta una serie di “qui”, come tanti incroci interiori ed esteriori.





 

 


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