Alla cieca di Cladudio Magris, una vita ubiqua

Paolo Targioni


Leonardo da Pisa, meglio conosciuto come Fibonacci, un matematico italiano vissuto all’inizio del XIII secolo, ha dato vita a un teorema che oggi porta il suo nome: la Sequenza di Fibonacci. Si tratta di una sequenza di numeri la cui caratteristica più evidente è che ogni terzo numero è la somma dei due numeri che lo precedono (quindi 0,1,1,2,3,5,8,13,21,34,55,89 e così di seguito all’infi nito).

Nel suo Líber Abacci, del 1202, Fibonacci applica questa sequenza ad una ipotetica popolazione di conigli, regolamentando così una successione matematica che già esisteva ed era usata, fin da epoche antichissime, in vari campi: dalla matematica pura all’arte passando per l’architettura e la geometria. Successivamente la sequen-za fu usata, tra gli altri, anche da Leonardo Da Vinci e Le Corbusier e, nel 1984 l’artista italiano Mario Merz, la collocò in neon rosso, come simbolo dell’energia presente nella materia, in cima al monumento più famoso della città di Torino: la Mole Antonelliana.

Claudio Magris, autore triestino che a Torino ha studiato, vissuto e lavorato per molti anni, presenta in Alla cieca, suo ultimo romanzo, personaggi che sembrano essere lavorati all’interno di una Sequenza di Fibonacci. Ogni personaggio è unico, rigido e dritto nei sui principi, speciale come un numero del- la sequenza, ma allo stesso tempo, sembra essere la somma di altri, sembra acquisire qualche cosa degli altri che lo precedono nella storia, che lo completano in questa sequenza numerico - letteraria.

Queste congetture sono state pensate a partire dalle avventure, che oscillano tra il tragico ed il ridicolo, del suo protagonista: uffi cialmente Salvatore Cippico (o Cipiko, o Cipico) nato il 10 aprile 1910, paziente di un manicomio vicino alla città di Trieste che offre la propria esistenza a un monologo. Un discorso che scorre come un fi ume, un bollettino clinico, recitato a un medico e registrato attraverso un microfono collegato ad un oggetto che, per il protagonista, ha un nome molto signifi cativo: PC.

Uffi cialmente Salvatore è il protagonista, perché dalla sua storia caotica appaiono continuamente le linee di altri percorsi biografi ci, resti e frammenti perduti di altre vite. Sembra quasi che la voce che narra all’interno del libro non sia solo quella di Salvatore, un uomo che è passato attraverso gli inferni del XX secolo, l’antifascista che ha combattuto nella guerra di Spagna il libertario che è stato deportato a Dachau durante la Seconda Guerra Mondiale, il comunista emigrato nel secondo dopoguerra in Yugoslavia per contribuire alla costruzione del Socialismo e poi, a causa della sua fedeltà a Stalin, imprigionato nel gulag di Goli Otok, la terribile isola calva dove il regime di Tito relegava i dissidenti. Sembra che la voce che risuona all’interno di questo romanzo sia anche quella di Jorgen Jorgensen, l’avventuriero danese del XIX secolo.

Si tratta di un personaggio realmente esistito che nel corso della sua vita è stato, fra l’altro, viaggiatore, spia, fondatore di città e re d’Islanda per poche settimane. Sembra anche che risuoni però la voce di altri personaggi minori legati ai due principali, come se esistesse un continuo processo di duplicazione di persone, di cellule, una clonazione continua in cui, come nella Sequenza di Fibonacci, ogni personaggio è unico e speciale, ma è anche la som- ma degli altri che lo hanno preceduto nella storia, sembra possedere qualcosa degli altri che lo hanno preceduto. E ogni personaggio crea, insieme a tutti gli altri, questa sequenza speciale e magica. Ma ciò che sembra veramente collegare tra loro tutti questi personaggi, questa babele di storie, questi incroci di vite, è il viaggio di Giasone e degli Argonauti.

Raccontata contemporaneamente alle altre storie, questa leggenda del principe che se ne andò in Colchide, con la sua nave Argo, alla ricerca del vello d’oro e che lasciò dietro di sé una scia di sangue e orrore, è il simbolo di una ricerca continua, una ricerca fatta da un’umanità che soffre perché non trova, perché non raggiunge qualcosa, che vive in una perenne ricerca di questo qualcosa che nemmeno lei sa bene cosa sia.

Argo, la nave che trasporta gli Argonauti nei loro viaggi attraverso il mondo allora conosciuto, è anche il nome di un mostro della mitologia greca: un mostro che ha cento occhi, così come cento so- no i soggetti, gli “ii” che agiscono lungo questo romanzo. “Ogni uomo è un marinaio anche se non di esserlo”, dice Salvatore ad un certo punto del libro, in altre parole, ogni uomo è una persona che vive in mezzo al mare, sempre viaggiando, sempre alla ricerca di qualcosa, perché solamente nella ricerca continua, nell’atto di cambiare, nel rifi uto di pensarsi completi, di pensarsi una persona sola, un unico essere, è possibile l’esperienza completa e totale della libertà. Ed essere una persona multipla, rinunciare allo sbarco in terra ferma, vivendo una continua ricerca, è stata la scelta di vita di Jorgen Jorgensen, le cui avventure in Islanda, nei mari gelidi dei due emisferi, nel continente australe, intorno al mondo intero, conquistano il lettore di questo romanzo. Un uomo che ha vissuto Waterloo, che ricorda quando l’ammiraglio Nelson bombardò Copenha- gen e che ricorda di quando la città si arrese sventolando la bandiera bianca e lui “accosta il cannocchiale all’occhio bendato, guarda la stragecon l’occhio sbagliato, chiuso, vede solo nero… la benda è comoda, aiuta a chiudere un occhio sul mattatoio”. Una decisione Alla cieca, una decisione che sembra non essere importante, una morte che non fa male, che alleggerisce, che aiuta, che potrebbe addirittura salvare dalla sofferenza. Una morte che potrebbe aiutare ad uscire dalla condizione di sofferenza a cui è condannato l’uomo. Una morte, una tragedia, attraverso la quale il protagonista del romanzo è passato molte volte: a Dachau come a Goli Otok, come in Tasmania nel secolo precedente.

Il titolo del romanzo, Alla cieca, può anche far pensare a mancanza di un centro nel racconto, un viaggiare alla cieca, una mancanza di bussola, una mancanza di soggetto, una mancanza di protagonista, un io diviso (o un io multiplo), un protagonista che, come diceva Musil, “è un delirio di molti”. Questo romanzo, quindi, è un romanzo di molti, di molti “ii”, un romanzo in cui si mescolano biografi a ed autobiogra-fi a, ma anche testi religiosi e sermoni che un internato in un manicomio, un prigioniero, un criminale, una displaced person, scrive per un prete in Tasmania, il reverendo Blunt che grida: “non abbiate paura del mare amaro, luogo di ogni sventura, perché è l’amaro del vostro cuore che vi porge il veleno della morte, è il vostro cuore corrotto il luogo della vostra rovina, è quello il mare che può farvi affogare”. Il mare, il luogo della nascita, della vita della creazione, dell’incanto, diviene mare amaro, luogo di pericolo, di morte, di sfortuna, di tradimento, di tragedia, un luogo dal quale bisogna fuggire, luogo di naufragio, un naufragio interno.

Un naufragio di idee che investe l’intero XX secolo, con le sue ideologie e la sua perdita di identità, e che permea l’intera produzione di Magris, riportandoci alla mente un altro autore, che ha molta influenza nel lavoro dell’autore triestino, e che ha descritto sapientemente questa condizione di naufrago dell’uomo moderno: Joseph Roth. Roth è un autore ha rappresentato meravigliosamente la crisi dell’uomo moderno e, prima di morire alcolizzato nella Parigi fra le due Guerre, ci ha offerto pagine sublimi riguardo a questo argomento. Nella sua opera più conosciuta La leggenda del santo bevitore, il protagonista dice a un certo punto che “già da tempo [...] aveva dimenticato il proprio cognome”. Questa perdita del cognome rappresenta una perdita di identità che Roth sentiva presente nell’uomo del suo tempo e che Magris interpreta oggi come una moltiplicazione dell’io, dell’identità stessa.

La fi gura di Roth, comunque, non è presente in questo libro solamente legata a questo tema; Salvatore, che nell’amore per la sua Maria trova l’unica difesa contro la violenza della vita, incontrandola di nuovo dopo la guerra decide, insieme a lei di costruire un mondo nuovo, un mondo migliore: “c’eravamo ritrovati [...] a sfi ancarci di lavoro, per l’Internazionale futura umanità”. Dimentica così la sofferenza, le perdite, si trasforma in un Dio che costruisce un mondo nuovo per un uomo nuovo, un eroe argonautico che per i suoi ideali e le sue imprese, diviene immortale esattamente come un Dio.

Queste idee ricordano quelle di Franz Tunda, il protagonista del romanzo rothiano Fughe senza fi ne, che dopo esser stato fatto prigioniero in Russia durante la Prima Guerra Mondiale, decide di aderire agli ideali della rivoluzione
e costruire un mondo nuovo con la donna che amava.

Per amore, comincia adamare la rivoluzione e, per gelosia, impara la politica e
l’organizzazione rivoluzionaria, “Combatté in Ucraina e sul Volga, si diresse verso le montagne del Caucaso e ritornò indietro sull’Ural. La sua truppa si dissolse, egli la ricostituì, reclutò contadi ni, fucilò traditori, disertori e spie, s’infi lò dietro le spalle del nemico, andò per qualche giorno in una città occupata dai bianchi, fu catturato, riuscì a scappare. Amò la rivoluzione e Nataša come un cavaliere antico, conobbe le paludi, la febbre, il colera, la fame, il tifo, la baracca senza medicinali, il sapore del pane ammuffi to. Placò la sete col sangue, conobbe il dolore delgelo e la sua cancrena, i morsi del freddo nelle notti spietate, il languore dei giorni torridi”.

Così come Salvatore lascia il suo Paese per andare a costruire un mondo nuovo dopo la Seconda Guerra Mondiale, Franz Tunda non fa ritorno alla sua Austria per poter seguire la causa della rivoluzione russa e nel suo nuovo paese costruire un mondo nuovo.

Tunda soffre a causa della sua scelta, soffre per la rivoluzione e soffre per l’amore di una donna, grazie alla quale diventa un vero rivoluzionario. La rivoluzione, comunque, gli lascia dei segni di sofferenza indelebili: il freddo, la paura, la prigione. Conosce l’odio; odio rivolto verso chi non la pensa come lui e sua moglie; odio verso chi non crede in un mondo nuovo.

A causa dei suoi ideali rivoluzionari, attraversò tutta la Russia. Arrivò persino in Caucaso, l’antica Colchide, la terra del vello d’oro la terra di Giasone e Medea e, come se fosse un volere del destino, anche lui ci portò morte e sofferenza. I suoi compagni lo amavano, ma lui li tradirà, ritornando in Austria; il suo amore fi nirà, proprio come quello di Giasone per Medea.

Nel libro di Magris esiste anche un altro tema importante: quello del viaggio come ritorno. L’autore parla del viaggio quasi come se fosse esclusivamente un ritornare nello stesso posto, un desiderio di recuperare qualcosa già vissuto, di recuperare la propria vita lasciata alle spalle da qualche parte.

Questo ritorno, simile all’amore, qualcosa sempre diverso ma sempre uguale, una ripetizione continua della stessa azione, è una caratteristica precipua dei personaggi.

Così come Jorgen ritorna due volte in Australia, prima come conquistatore e più tardi come carcerato, anche Salvatore ritorna là di nuovo, per la terza volta nelle loro due (o più) vite.

Il ritorno in un luogo conosciuto è percepito come qualcosa di migliore che andare in un luogo nuovo: la riscoperta che risulta più interessante della scoperta. L’importanza di una nuova impressione, una nuova visione, di un luogo già conosciuto. O forse l’inutilità della scoperta: in altre parole, la scoperta che in realtà nulla interessa o che non è importante “ogni tanto, come dopo il combattimento con la Preneuse, guardo nella canna della pistola. Forse laggiù in fondo c’è qualcosa [...] ma I’m damned if I see it, in quel nero non c’è nulla né da una parte né dall’altra, potrei anche premere il grilletto, alla cieca, tanto non c’è nessuno” ci dice un personaggio ad un certo punto del libro, quasi a confermare l’ipotesi di questa visione del mondo.

Un libro sul vuoto, quindi, una rappresentazione del presente, del mondo moderno; della violenza e del dolore del mondo moderno. Il mito di Giasone e Medea che vince su tutti gli altri miti. La violenza terribile di questo mito che parla di tradimenti, sangue, morte, che viene innalzata a simbolo del XX secolo. Un secolo che ha visto i lager ed i gulag, il tradimento degli ideali della rivoluzione che si è vista trasformata in oppressione, l’isola felice che diventa l’Isola Calva: Goli Otok. Giasone che si trasforma in un dittatore sanguinario, un criminale meschino, che tradisce chi ha avuto piena fi ducia in lui.

 

 


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