Marco
Lucchesi - Articolo
La
vicenda di Kertész
Dalle alte pianure dell’Ungheria e dal
genio di due romanzieri
dell’Europa Centrale – parenti di Musil, Mann e Broch
– sono
appena giunti in Brasile Divorzio a Buda di Sándor Márai
e Kadish
per un bambino mai nato, di Imre Kertész
Per molti l’opacità
della lingua ungherese impedisce una conoscenza più ampia
della sua letteratura. C’è chi pensa che il magiaro
sia tra le lingue più diffi cili, come Paulo Rónai
– erudito, professore di latino a Budapest e che è
diventato, per così dire, brasiliano, traduttore della
Commédie humaine in portoghese e di antologie di racconti
e novelle dell’Ungheria – è arrivato a dire
in Come ho imparato il portoghese ed altre avventure che la grammatica
ungherese conservava “un intrico di opachi labirinti”.
Il fatto di non appartenere alla famiglia indoeuropea –
essendo più vicina al fi nlandese, al turco e al mongolo
–, causa all’inizio un certo disorientamento, come
di chi si senta perduto in una terra di nessuno, senza riferimenti
previ, in mezzo a parole defi nitivamente lunghe, irriducibili
(o quasi) al Dizionario dell’Occidente, con una vasta mobilità
frastica e una delicata relazione tra sostantivi e aggettivi,
oltre ai complementi (inessivo, ilativo, elativo, sublativo, superesivo,
delativo, alativo, terminativo, adesivo, ablativo e quant’altro!).
Ho cominciato a studiare meglio la lingua da circa un anno e mezzo,
con piccole interruzioni. Ora ottimista. Ora disperato. Mi sono
dedicato alla grammatica di Sauvageot, Premier livre dehongrois,
nonché a una serie di saggi lessicali e etimologici. Non
sono andato oltre una (dotta, forse?) ignoranza, una certa pratica
strumentale, riuscendo, tuttavia, a porre in relazione piani e
contesti, a partire da un piccolo dizionario e modi grammaticali.
Si tratta di una lingua di forza e bellezza, equilibrio e ragione.
E se un idioma fosse capace di impedire la conoscenza della sua
letteratura, sarebbe lecito immaginare Shakespeare sconosciuto
a Sumatra, Beijing o Helsinki, dal momento che l’inglese
si mostrerebbe incompatibile con quelle lingue e culture nelle
quali sarebbe tradotto? L’argomento dell’impenetrabilità
dell’ungherese mi sembra insuffi ciente, buono per mascherare
– per inerzia ideologica – altre e più complesse
motivazioni di ordine politico e culturale, che si modifi cano
a vista d’occhio dalla caduta del muro di Berlino.
In Brasile, la diffusione della letteratura ungherese è
la risultante dello sforzo di un manipolo di traduttori (Paulo
Rónai, Paulo Schiller, Ildikó Sütö, Ladislao
Szabo), che non solo conoscono l’originale, ma anche il
mestiere della traduzione, dominando con maestria la lingua d’arrivo,
così come la letteratura brasiliana e portoghese. Ma c’è
tutto un mondo da costruire,da una buona antologia della poesia
ungherese ad altri e più frequenti sforzi, come la creazione
di un corso di lingua e letteratura ungherese nelle nostre Università
federali.
Il primo (e forse ultimo) grande successo di pubblico fu I ragazzi
di via Pal (A Pál utcai fi uk), di Ferenc Molnár,
tradotto da Rónai. Questo libro
ebbe un grande impatto sulla mia generazione e su quella immediatamente
precedente. Mi ricordo di tante pagine, e del terreno incolto,
il Grund, e del Club in cui sognavano i ragazzi, così come
degli episodi penosi, come le ore che precedono la morte di Nemecsek.
Tutto questo emozionò la mia prima adolescenza. Decisi
di scrivere a Paulo Rónai, perché c’erano
degli echi fra quei ragazzi e ciò che io avevo vissuto
a Niterói, dagli otto ai dieci anni d’età.
Il terreno incolto. La fondazione del Club. E la guerra (di rosmarino
e maggiorana) tra fazioni rivali. Lo stesso lirismo che avvicinava
i giovani del Brasile a quelli dell’Ungheria.
Altro e grande autore: Sándor Márai. Nato nel 1900
a Kassa, sotto il dominio dell’antico Impero austro-ungarico,
i suoi romanzi erano molto letti negli anni ’30. Durante
il regime fascista di Horthy, Márai visse periodi di esilio
in Germania e in Francia, per lasciare defi nitivamente il paese
dopo l’avvento del regime comunista, nel 1948. Andò
in Canada e si stabilì poco dopo negli Stati Uniti. La
sua opera cominciò a cadere in un forzato e assurdo dimenticatoio
in Ungheria. Smarritosi in una grave solitudine, Márai
decide di porre fi ne alla sua vita nel 1989, nella città
di San Diego. Fu l’editrice Adelphi in Italia che cominciò
a tradurne l’opera, oggi inserita nel catalogo delle maggiori
case editrici d’Europa e degli Stati Uniti. Come possiamo
ben vedere nel caso di Márai, le ragioni politiche sono
state largamente superiori a quelle di ordine linguistico.
Il romanzo Divorzio a Buda (Válás Budán)
è un piccolo capolavoro. Libro di taglio classico, mitteleuropeo,
pieno di passaggi, mondi interiori, grandi monologhi, geometricamente
perfetti, grande agilità narrativa, oltre ad una strana
e bella consistenza. In uno dei ritratti del protagonista, Márai
fonde il paesaggio di Buda con i valori morali del Magistrato,
traslati in tempi altri e gravi:
Tutte le sue ricerche e interpretazioni, tentativi di domare il
reale e superare gli istinti,hanno molto di ciò che si
era soliti chiamare Alta Modernità – una vasta tradizione
del romanzo del XIX secolo, in cui si riprendono quelle figure
e intrecci che ora, in Márai, si dissolvono completamente.
Ma il tutto senza clamore, senza assumere una teatralità
vuota ed aggressiva.
Quasi come la chiesa di San Matteo a Buda, e i suoi castelli e
palazzi in rovina. Abbiamo quasi un’odissea mentale, sorta
di rieducazione borghese dei sensi, ma di una borghesia liberale,
contraddistinta da gesti di umanismo e disperazione. Tutto ciò
che si può capire del giudice Kristóf Kömives,
cercando l’equilibrio classico, la distanza quasi olimpica
e oggettiva che si richiederebbe ad un alto magistrato. Le sottigliezze
sono qui importanti, allusioni, remissioni, che raggiungono l’apice
con la misteriosa visita del dott. Greimer, terribile e meraviglioso
avvenimento, di una narrativa notturna, eminentemente notturna,
fatta di ombre e silenzi – indimenticabile per il lettore
più esigente. Sándor Márai rappresenta oggi
per me non esattamente il dramma della lingua, della storia o
dell’autore. Ma il dramma di una letteratura ingiustamente
emarginata e dei grandi valori di una certa perduta Modernità.
Questi stessi valori riappaiono in un romanzo che mi è
caro: Verdetto a Canudos (Ítélet Canubosan), in
cui Márai si ispira al capolavoro di Euclides da Cunha
Os sertões (come già aveva fatto Mario Vargas Llosa
ne La guerra en el fin del mundo, 1981). Márai segue la
traduzione inglese di Samuel Putnam e rimane impressionato dall’opera
di Euclides (“il libro è come la vegetazione del
sertão: abbondanza e aridità allo stesso tempo”)
e il genocidio che la giovane Repubblica perpetrò ai danni
dei seguaci del Conselheiro, nel 1896, nell’entroterra di
Bahia.
Quando penso a Márai – in questo scenario diffuso,
impreciso e capillare della letteratura ungherese in Brasile –
mi rivolgo d’acchito al bellissimo libro di Imre Kertész,
Senza destino, del 1975, nella versione di Paulo Schiller, a partire
dal quale riprendiamo, secondo un’altra chiave, ciò
che in Molnár era un excursus lirico.
Passiamo per un’adolescenza diffi cile, quella di Kertész,
che nasce da una famiglia ebrea di Budapest, nel 1929. Deportato
ad Auschwitz, Buchenwald e Zeitz, ad appena 15 anni, nel 1944.
Passati poco più di dodici mesi, Kertész ritorna
a Budapest e vive come traduttore (di Hoffmansthal, Nietzsche,
Canetti, Schnitzler), librettista e scrittore, rifl ettendo sulla
sua drammatica esperienza dei campi di concentramento, a partire
dalla quale elaborò i suoi romanzi, come in Senza destino.
Una drammatica percezione delle trasformazioni e del linguaggio
praticato dal corpo, sottomesso ad un’infi nità di
prove. Il peso della Storia. I suoi fantasmi. E assurdi. Come
interpretarli? Come salvaguardarsi da questi mali? E tuttavia,
lungi dal ridurre il fato a mera ideologia, Kertész rivela
il vigore di questa esperienza al centro del fenomeno letterario,
evitando aporie ulteriori, riduzioni e sequestri condannabili,
in cui la letteratura scompare, lasciando al suo posto un’eredità
extraletteraria di macerie, gesti, parole. In questa cognizione
del dolore, ciò che sorprende è la logica della
sopravvivenza o della sua pratica, che supera eroicamente limiti
che prima sembravano invalicabili.
In questo tono, in questa forma complessa di capire la Storia
e il Soggetto, considero Kadish a un bambino mai nato, il capolavoro
di Kertész, uno dei libri più belli di cui abbia
notizia, intenso e veloce, come se fosse stato scritto adesso,
a partire dalla sua musica, dai suoi ostinati, crescendo e diminuendo,
come un grido lancinante, percorso da una forte disperazione.
Sprovvisto di effetti meramente retorici e sproporzionati, Kadish
è un tempio greco consacrato ad un angelo duro e diffuso,
tremendo e lancinante, una specie di Ur-Schrei, dal grido pri-
mordiale, lanciato con esuberanza e pieno dominio del discorso.
Penserei a modelli diversi, come la Lettera al padre di Kafka,
o a quando Leopardi si dirige a Monaldo, e al libretto Erwartung,
musicato da Schönberg. E tuttavia l’opera di Kertész
è solitaria e non conserva un indirizzo specifi co, mittente
o destinatario. Somiglia di più ad un trattato sulla Dignità
dell’uomo – come si faceva nel Quattrocento –,
ma di una complessità nuova, fatta di adesione e disincanto,
elaborante una ipermorale che parte da una data realtà,
davanti ai cui orrori occorrerà formare un’altra
e più complessa immagine degli uomini. Ogni qualsiasi spiegazione,
più o meno determinista, più o meno classifi cabile,
non risponde alla ricerca morale di Kertész.
Ecco il punto cruciale, quando le nuvole di ferro si abbattono
su di un campo di verde primavera, quando il trionfo della barbarie
sembra l’ultimo di una serie, come e quando le fi gurazioni
del Pentateuco e del suo Tempo forte sembrano gridare attraverso
una distanza tremenda e solitaria, come lo splendore della stella
solitaria della teologia giudaica. La condizione di Kertész,
in quelle pagine, conosce nelle nuvole una forma di meraviglia
dalla forma compatta e universale, distinta e pura, di paese e
radice, di una stessa e molte lingue, come nei versi di Esenin,
quando egli si ritrova a meditare, solitario, sulla Bibbia dei
Venti, mentre pascola il gregge di inesauribile, segreta e purissima
ricerca:
Ho letto e pensato
sulla bibbia dei venti
con Isaia ho pascolato
i miei dorati armenti.
(trad. Andrea Santurbano)
Marco
Lucchesi é escritor.