Etiopia:
un paese alla deriva
Una società millenaria che non è mai riemersa dalle
guerre del sec. XX
Da
tempo desideravo conoscere l’Etiopia per vari motivi. Innanzitutto,
ricordavo, dai tempi della mia fanciullezza (sono nato nel 1930),
l’entusiasmo delirante per la conquista di questo spazio
di oltre un milione di km2 considerato vitale per consentire all’allora
Italia proletaria e prolifica di inviare là il suo eccesso
di popolazione. E, per giunta, l’Italia aveva sfidato la
Società delle Nazioni che aveva condannato la guerra e
deciso sanzioni economiche (blande peraltro, in quanto non includevano
il petrolio ed il passaggio dal Canale di Suez) e, con la conquista,
si trasformava addirittura in un Impero. Fatti questi sapientemente
strumentalizzati dalla propaganda fascista che facevano facile
presa, specie sui giovani.
Mi attraevano poi le vicende storiche: gli antichi vincoli con
la Giudea, la leggenda dell’incontro della Regina di Saba
con Re Salomone a Gerusalemme da cui derivava la stirpe degli
Imperatori etiopici durata quasi 3000 anni, il presunto trasferimento
ad Axum delle tavole della legge mosaica, le comunità ebree
là emigrate da circa 1300 anni, ormai somaticamente africane
ed in gran parte trasferite ad Israele verso il 1990 per la carestia
del periodo e la solita emarginazione. E poi, il fenomeno della
Chiesa Copta Cristiana che ha finora resistito sugli altipiani
etiopici alla pressione islamica, emanazione nel 300 d.C. della
Chiesa di Alessandria di Egitto, separata da sempre da Roma e
con patriarcato proprio prima ad Axum e poi ad Addis Abeba, con
tante chiese incredibili scavate nella roccia, antichi dipinti
e le sue cerimonie fastose.
Ed infine, mi interessava conoscere qualcosa di questa terra antica,
culla dell’uomo sulla base dei reperti di oltre 4 milioni
di anni, con i suoi altipiani tormentati, le ambe (montagne con
pareti scoscese ed ampia cima piatta), le profonde diversità
etniche delle tante tribù, le tragiche problematiche economiche.
Nonostante i soli 10 giorni disponibili, ci è stato possibile
vedere buona parte dell’altopiano, sorvolandolo con aerei
Fokker ad ala alta che volano a bassa quota, attraversare in barca
il lago Tana con visita alle sue storiche isolette, percorrere
in auto e a piedi le città di Addis Abeba, Gondar, Lalibela,
Axum, altre minori e vari dintorni. Abbiamo anche partecipato
a Gondar e Lalibela alle processioni religiose con centinaia di
preti copti addobbati con ricche vesti, ombrelli intessuti di
fili d’oro, grandi croci argentate e migliaia di pellegrini
poverissimi avvolti in tuniche bianche, con ininterrotte musiche,
balli, preghiere, canti religiosi. Cerimonie queste ancora assolutamente
autentiche, con scene che sembrano uscite dalla Bibbia.
A parte il folklore, le splendide antichità, un originale
artigianato, la bellezza della gente, la naturale eleganza delle
donne, qualche mercato movimentato, la sensazione che dà
l’Etiopia è di un paese in enormi difficoltà,
con una popolazione cresciuta a dismisura, sottonutrita, carente
di istruzione, di assistenza medica, di comunicazioni, rassegnata,
in condizioni del tutto primitive.
UNA GUERRA
CHE RACCONTA LA STORIA DEL NAUFRAGIO
Per cercare di comprendere
i motivi di questa tragica situazione, potranno essere utili alcuni
cenni sugli avvenimenti degli ultimi 70 anni. Iniziamo con la
conquista italiana del 1935/36 che aveva comportato per il nostro
paese impegni ed oneri elevatissimi. Furono trasferiti in Eritrea
e Somalia, in centinaia di navi, oltre 200.000 soldati, aerei,
autocarri, artiglieria, ogni sorta di materiali, genieri, migliaia
di addetti alla costruzione di strade per consentire l’accesso
al difficile territorio e le operazioni logistiche. Nei circa
5 anni, dall’inizio delle ostilità fino all’entrata
dell’Italia nella 2a guerra mondiale nel giugno 1940, fu
profuso dallo Stato fascista il 25% delle risorse governative
nelle operazioni belliche e nelle opere di infrastruttura, specie
strade, che ancor oggi costituiscono la rete fondamentale di comunicazione.
Nel 1938 la popolazione etiopica era allora valutata in circa
6 milioni di abitanti, contro gli allora 45 milioni della popolazione
italiana. In questa situazione – nonostante le grandi difficoltà
del territorio, la lontananza, l’opposizione del governo
ad incroci razziali - l’idea di investire per poi inviare
gradualmente in Etiopia l’eccesso della popolazione italiana
poteva anche avere un senso. Ma chi mai avrebbe potuto pensare
che la popolazione etiopica sarebbe cresciuta a dismisura e viene
valutata oggi in 70 milioni di miserabili, mentre l’Italia
è diventata uno dei paesi a più bassa natalità,
con necessità di milioni di immigrati per sostenerne l’economia?
C’è inoltre da chiedersi come mai il governo italiano,
con l’ingente impegno etiopico e le finanze conseguentemente
debilitate, avesse deciso di entrare in guerra contro l’Inghilterra
nel 1940, con conseguente isolamento dell’Impero per la
chiusura del canale di Suez. Dopo poco più di un anno dall’inizio
delle ostilità, l’Impero era perso e si concludeva
così una folle e breve avventura che, oltre ad ingenti
spese, aveva comportato il sacrificio di migliaia di nostri combattenti
e lavoratori.
Con il ritorno del Negus nel 1941, l’Etiopia aveva stretto
rapporti con gli Stati Uniti dai quali aveva avuto l’appoggio
per annettersi l’Eritrea come stato confederato ed assicurarsi
così uno sbocco al mare. Peraltro, con il declassamento
dell’Eritrea a semplice provincia nel 1960, ebbe origine
una interminabile guerra, di fatto non ancora conclusa. Analoghi
conflitti, anche se di minore durata, avvennero con Somalia e
Sudan.
Nel 1955 fu poi proclamata una nuova costituzione che dava maggiori
poteri al parlamento e cercava di ridimensionare il secolare ordinamento
feudale, ma ne seguirono disordini, tensioni, rivolte e –
nel 1974 – il fatto nuovo, con la destituzione del Negus,
poi assassinato, la proclamazione della repubblica, l’assunzione
di un regime militare - con a capo il Col. Menghistu - di ispirazione
socialista, con l’economia controllata dallo Stato, nazionalizzazione
dei terreni agricoli e ridistribuzione ai contadini, rottura con
gli Stati Uniti, nuova alleanza con l’Unione Sovietica e
Cuba che diedero cospicui aiuti militari, altre guerre e disordini
interni.
Il regime Menghistu si concluse nel 1990 con il disimpegno dell’URSS
e si affermò un nuovo regime federalista in cui venne eletto
democraticamente premier Meles Zenawi che sta facendo tentativi
di modernizzare il Paese, le cui condizioni sono ormai disastrate
per l’esplosione demografica a cui già si è
accennato, le ricorrenti carestie per mancanza di piogge e per
l’investimento in spese militari di gran parte delle risorse
disponibili.
Dilagano AIDS, malaria, l’istruzione è precaria,
l’agricoltura è manuale e di pura sussistenza, si
stima che la grande maggioranza della popolazione non si alimenti
sufficientemente, le carestie sono ricorrenti, le città
pullulano di bambini e deficienti fisici questuanti. Quindi un
panorama disastroso, uno dei paesi più poveri del mondo
nel già estremamente critico contesto africano.
Difficile dire cosa dovrebbe farsi per tentare di iniziare in
Etiopia una qualche ripresa. Innanzitutto, e con i buoni uffici
internazionali, occorrerebbe azzerare le spese militari e quindi
risolvere definitivamente le interminabili e assurde guerre con
gli Stati vicini. In secondo luogo, dovrebbe venire lanciata in
grande stile una campagna di pianificazione famigliare, certo
difficile con l’80% della popolazione contadina, con estrema
precarietà di comunicazione e assistenza medica. Dovrebbe
poi venire condonato il debito estero di 6 miliardi di dollari
che corrisponde a quasi un anno di PIL. E poi, sarebbe imperativo
– e non solo in Etiopia – il massiccio intervento
internazionale, sotto l’egida dell’ONU (presente ad
Addis Abeba da circa 40 anni, peraltro con risultati scoraggianti),
applicando almeno una parte delle ingenti risorse che potrebbero
mettere a disposizione i paesi ricchi con la riduzione dei loro
bilanci militari e la rinuncia ad una parte del loro benessere,
che spesso è opulenza.
Dovremmo cioè sforzarci per acquisire rapidamente una nuova
coscienza etica mondiale e realizzare una pacifica rivoluzione
solidaria, prima che sia troppo tardi.
Franco Urani
è laureato in Scienze Agrarie e ex-presidente della Fiat
do Brasil.